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Le recensioni del Boss e Djordja
THE FIGHTER di David Owen Russell

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THE FIGHTER di David Owen Russell

 

Ovvero Pro-Evolution-Rocky. E’ il nuovo film americano sulla boxe o meglio sulla biografia di un pugile della provincia americana e del suo fratello-allenatore-ex pugile arrivato quasi sul tetto del mondo. Appunto riguardo la “evoluzione” del mio sottotitolo direi subito che siamo molto lontani da “Rocky” e da “Toro scatenato” ma molto più vicini paradossalmente al viscontiano Rocco. Infatti più che del fighter “Irish” Mickey Ward alias uno spento e inutile Mark Wahlberg la parte del leone la fa la famiglia invadente di Mickey: la madre (una incredibile Melissa Leo) le sette (!!) sorelle, il papà-vittima-debole e sopra a tutto sopra a tutti un monumentale Christian Bale nel ruolo del fratello Dickie Eklund che prima di gestire la palestra dell’insignificante villaggio del Massachusetts dove si allena anche Mickey, aveva affrontato il mitico Ray Sugar Leonard sfiorando la Gloria.

Naturalmente i rapporti familiari durissimi e violenti al limite del grottesco metteranno a rischio la carriera di Mickey: sarà l’arrivo di Charlene (una stupenda e bravissima Ady Adams) a dargli lo stimolo per ottenere il risultato, anche se non sarà tutto così scontato come sembra.

La seconda parte del film “soffre” secondo me un po’ troppo della inevitabile costrizione narrativa e cronologica dei fatti, ma la prima parte del film signori è veramente grande Cinema a cominciare dai titoli di testa. Anche lo stile estetico offerto dal regista (fino ad oggi autore di prove dimenticabili) riesce a convincere: gli appunti familiari sono in perfetto mondo Cassavetes e con una appropriata tecnica di riprese riesce a trasportarci fra le mura della famiglia e per le strade battute dei protagonisti. La colonna sonora potente condisce il tutto.

Alla fine del film prima dei titoli di coda uno squarcio sulla destra dello schermo ci propone un minuto dei due veri fratelli e soprattutto lì, vedendo il vero Dickie Eklund, capirete quanto è stato superlativo il nostro Christian Bale.

Piccola nota, molto positiva sulla visione del film: anche l’Intrastevere come il Nuovo Sacher e l’Alcazar proietta la pellicola in originale i primi due giorni della settimana. Sarà la vicinanza delle scuole americane, sarà una finalmente raggiunta maturità degli esercenti “liberi” sta di fatto che per me è una goduria ascoltare i veri suoni del film e la vera voce di Bale & C.

Alla faccia della lobby dei doppiatori italici.

 

Marco Castrichella

 
IL CIGNO NERO di Darren Aronofsky

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Dopo le feroci critiche alla presentazione a Venezia 2010 (come spesso accade i critici festivalieri sono convinti di essere loro i protagonisti) arriva con inconcepibile ritardo in sala il nuovo lavoro di Darren Aronofsky, regista di punta di un Cinema americano ancora coraggioso e per niente omologato.

Il Cigno Nero è un melodramma ma del tutto particolare. Se la storia che va in scena è quella del lago dei cigni di Ciajkovskij quella che vive la prima ballerina è da “Scarpette rosse”. Niente Ophuls o Visconti nessuna ricercatezza estetica e scenica ma un melodramma tutto di pancia, di rumori, di violenza e sesso al limite dell’horror. Tutto questo girato con vorticosi movimenti di macchina e un lavoro finale di montaggio che mozza il fiato.

Siamo molto vicini all’altro capolavoro di Aronofsky, “The Wrestler” e non solo per la tecnica usata che è quella di seguire il protagonista con la cinepresa per vivere con lui gli affanni, la preparazione all’esibizione, le paure e i fallimenti. Come il Randy The Ram di “The Wrestler” anche Nina viene “inseguita” da Darren mentre prepara le proprie fasciature, le scarpette, o davanti allo specchio o a letto, entrambi incontro al loro destino che si chiama Sacrificio. Il Sacrificio che si deve compiere per essere liberati da un incantesimo, quello della vita, che non è un ring o un palco. E poi i segni sul corpo, atroci per entrambi: sono le ferite che si portano appresso per i tanti sbagli commessi. Per non avere avuto il tempo di amare o di essere amati chiusi entrambi in un mondo di specchi, una sorta di labirinto dove non c’è liberazione.

Colpiscono nel nuovo film di Aronofsky alcune scene (su tutte quella del Cigno Nero durante la prima o della discoteca) e comunque il film riesce a riempire gli occhi e il cuore.

Visto alla sala Farnese che merita un cenno per l’ottimo lavoro di ristrutturazione fatto, poltrone comodissime e uno schermo che per una sala non da circuito è un lusso. Continuassero a dare film anche di qualità e sicuramente il premio della presenza degli spettatori li ripagherà.

 

Marco Castrichella

 

 
IL DISCORSO DEL RE di Tom Hooper : Ovvero quando la storia va oltre la Storia.

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IL DISCORSO DEL RE di Tom Hooper

Ovvero quando la storia va oltre la Storia. Il naturale spazio per un racconto così originale viene trovato da un giovanissimo regista inglese che già aveva incantato gli spettatori con una versione fra cine e tivvù della prima Regina Elisabetta (quello con Helen Mirren e Jeremy Irons) da non confondere con il paludoso e finto dittico dell’indiano Kapur.

La storia in minuscolo è quella del povero balbuziente duca di York.

E’ la storia così umana di un bambino figlio di un uomo Re-pressivo che diventerà Storia maiuscola il momento in cui, negli anni in cui il fanatismo nazista prenderà corpo, dovrà sostituire sul trono dell’impero britannico il fratello invischiato in un amore per niente “regale”.

D’altronde una delle poche cose che si richiedono a un regnante è quella di saper parlare al proprio popolo. Ecco allora che dovrà affidarsi ad uno stravagante logoterapeuta, per giunta nemmeno inglese ma australiano.

E qui il film decolla: non siamo più davanti al solito “polpettone” storico dai bei costumi, dalle scenografie azzeccate, ma mentre il nemico diventa un microfono (inquadrato magistralmente con grandangolari inquietanti) il rapporto a volte affettuoso a volte scontroso fra i due protagonisti ci scorre in una perfetta armonia di inquadrature dal basso, primissimi piani, campi e controcampi e una sceneggiatura battente, piena di ritmo e humor (non a caso resteranno indimenticabili le citazione shakespeariane e le musiche di Mozart). Un duello che vede i due attori, Colin Firth e Geoffrey Rush sopra ogni immaginabile recitazione e che li vedrà sicuramente premiati durante la notte dell’Academy.

Che dire altro di un film perfetto, forse poco originale, ma perfetto al punto che oltre alla comoda poltrona del Nuovo Sacher ci vorrebbe accanto un buon bicchiere di single malt e un sigarone stile Churchill (o una tavoletta di cioccolato fondente per i non fumatori).

Due note, forse scontate per concludere.

La prima: non oso immaginare questo film doppiato (gli scioglilingua, gli allenamenti alla corretta dizione non possono assolutamente avere una traduzione).

La seconda è un richiamo alla Storia e alle responsabilità nella vita politica: il breve regno del fratello Eduardo VIII terminò a favore di Giorgio VI “soltanto” perché il primo aveva una relazione con una donna divorziata... pressappoco quello che succede da noi oggi.

 

©Marco Castrichella

 


 


 
BIUTIFUL di Alejandro Gonzales Iñarritu - Un film che farà discutere
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BIUTIFUL di Alejandro Gonzales Iñarritu

Appena arrivato nelle sale italiane il nuovo, attesissimo film del messicano Iñarritu che terminata la “trilogia del dolore” si ripropone con un film che più doloroso non si può. E allora perché? Perché rimane si la tragedia, si il dramma ma scompare del tutto il destino che accomunava le vite dei “poveri cristi” nei tre precedenti film: qui il povero cristo è uno solo Uxbal, il protagonista interpretato da un magnifico Javier Bardem. E il destino non c’entra più... è la contraddizione degli sconfitti la protagonista del film, il nostro povero cristo sfrutta i clandestini per dar loro una possibilità di vita e si accorge del “difetto” solo quando è troppo tardi.

Lui è la prima vittima perché legato ancora sentimentalmente alla donna più fragile del mondo, perché deve dare tranquillità e crescere i due figli in una casa che è una schifezza, in una Barcellona irriconoscibile, quella della periferia, dei cinesi e degli africani clandestini altro che Woody Allen e le sue Vicky e Cristina dei fiori alle finestre, dei flamengo e del vino tinto... si vero c’era anche li un certo Bardem che però era un figaccio incredibile, questo Bardem è un pover’uomo che sta per morire, che non ha mai visto vivo il proprio padre, lo vedrà (e come) in due scene indimenticabili: all’inizio del film (che poi è la fine) e insieme al fratello durante la riesumazione per la cremazione.

Il talento del regista messicano appare sfolgorante in alcune scene (la retata della polizia ai danni dei venditori abusivi sulla Rambla è impressionante).

Il film farà discutere, ha un limite forte di sceneggiatura (non è più Guillermo Arriaga a scrivere) ma ha un pregio secondo me non da poco: non commuove come qualsiasi altro film del genere, ma indurisce lo spettatore, gli da la giusta tensione o al limite la cattiveria per dire “devo resistere!” dobbiamo comunque resistere per essere ricordati dai nostri figli anche se non abbiamo combinato niente di buono. Diventa una questione di orgoglio, non di pietà o di dolore.

Il Boss

Marco Castrichella

 

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