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Home Recensioni Le Recensioni del Boss (Marco Castrichella) Kill Me Please “Clinica del suicidio” A scanso di equivoci, si ride.

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Kill Me Please “Clinica del suicidio” A scanso di equivoci, si ride.
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Kill me, please!

Presentata e premiata all’ultimo Festival del Cinema romano questa scorrettissima commedia nera (anzi bianco/nera e non solo per la scelta della fotografia) si rivela come una delle pochissime voci fuori dal coro nel panorama cinematografico piuttosto appiattito dell’anno passato.

Il film è diretto dal francese Olias Barco anche se poi la produzione è belga e l’unico ambiente narrativo è un castello in Svizzera (dove sembra esistere l’unico esempio di “Clinica del suicidio”)

A scanso di equivoci, si ride. Si ride sul tema del suicidio e della morte ma stiano lontani gli appassionati della commedia tradizionale: la struttura narrativa e i personaggi così seri, austeri, che sembrano partoriti dalla mente di Kaurismaki, sono si grotteschi ma mai ridicoli, non dicono battute ma dialogano, narrano le proprie storie e i propri disagi che li hanno portati al ricovero nel castello. E infatti alcune scene sono assolutamente tragiche, come avrebbero potuto pensarle un Luis Bunuel o un Marco Ferreri, autori che non a caso hanno vissuto molto in Francia e che secondo me sono nel dna dell’autore.

Dicevo iniziando il commento che il film è un vero bianco/nero perché il soggetto è il suicidio. E cosa c’è di più nero del suicidio e di più bianco della “morte dolce”. Il nero se lo portano appresso i “fortunati” ricoverati in attesa della morte con le loro storie più o meno sfigate, il bianco è la neve presente dalla prima all’ultima scena e se qualcuno ricorda “Fargo” dei Coen Bros. o Lady Vendetta di Park Chan-Wook capirà a cosa mi riferisco

Naturalmente c’è un colpo di scena a metà del film che rovescia e stravolge ogni logica sulla pianificazione della morte. Non ne risente comunque l’identità dell’opera, o meglio per qualcuno si, visto che da qui alcuni spettatori hanno lasciato la sala (la comodissima Alcazar trasteverina) scatenando ancora di più il senso grottesco della pellicola. Io e il mio figliolo Angus a quel punto fomentati dal doppio senso surreale (del film e delle reazioni in sala) ci siamo esaltati. Lui addirittura ha drugheggiato e alla fine a luci accese sui titoli di coda ha invitato gli “scontenti” spettatori ad andare a vedere Clint Eastwood: “Ve lo meritate Hereafter!!”

 

15/01/11 Marco Castrichella

 

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