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DOGMAN di Matteo Garrone
E intanto Matteo Garrone non sbaglia un film.
 
 
 
 
Premessa: Non si tratta di un giallo (la locandina svela già il finale della storia) comunque avviso che parlerò del film e della trama, quindi se non avete visto il film e non volete sapere i particolari rimandate la lettura.
E intanto Matteo Garrone non sbaglia un film. Come recitava un disco degli anni ottanta riferendosi a Dustin Hoffman, sono qui a tessere le lodi del nuovo film del regista romano Matteo Garrone, che ieri sera ha rapito per l’ennesima volta anima e corpo del sottoscritto. Il suo nuovo film si intitola Dogman ovvero L’uomo-cane, o se preferite (come da molti invocato) Er Canaro o meglio ancora Cane di paglia, tanto per tornare a Dustin Hoffman. Già perché di quel film straordinario che firmò lo “zio” Sam Peckinpah nel lontano 1971, Matteo Garrone riesce a rievocare le sensazioni, i meccanismi e il malessere profondo seppure in contesti e modalità del tutto differenti. Lì c’era un professorino con la giovane moglie che divengono ostaggio di un branco di animali violenti e senza scrupoli. Ostaggio fin quando la civiltà e la debolezza del professorino non lascia posto a una reazione inattesa quanto cruenta. In Dogman il contesto è totalmente diverso perché il protagonista Marcello svolge la sua attività in un non-luogo fatiscente, gestendo un piccolo salone di toelettatura per cani.
Lui è il protagonista assoluto della storia ed è interpretato da un incredibile Marcello Fonte al quale Matteo Garrone “incolla” la sua cinepresa (ricordo solo pochissime scene nelle quali Marcello non sia presente). Il suo locale è quasi oscurato dal cemento, a seguire c’è un negozio di compra-vendita di oro, quindi la sala giochi e poi la bettola-trattoria. Sembra di essere nella Scampia di Gomorra o forse in un villaggio western di quelli cari a Sergio Leone. Eppure Marcello lì fa il suo lavoro e lo fa con tanto amore per le poche cose che contano per lui. L’amore per la piccola figlia Sofia e poi per gli animali, i cani soprattutto, ma anche per quelli a “due zampe”. Quelli sono diversi, alle volte con loro non basta la sua voce gentile o la parolina “amooore”. Ma lui vive anche per avere la loro amicizia, per avere il loro saluto ogni giorno, nonostante molti di questi non lo meritino, come Simone (interpretato da Edoardo Pesce), ex-pugile violento e pericoloso che detta legge nel quartiere alla stregua di un pistolero da film western e domina il piccolo, esile Marcello, costringendolo a fare qualsiasi cosa gli passi per la testa.
Per Marcello procurare una dose di cocaina per i propri amici è prima di tutto un gesto fraterno e se pagano dopo non c’è problema. Simone no. Simone se ne approfitta. Lo costringe, lo porta di forza con se durante le rapine, lo usa come esca per rimediare la droga dal fornitore di Marcello, addirittura si fa dare le chiavi del suo locale per aprire un buco nel negozio a fianco. Marcello sopporta. Addirittura si fa un anno di carcere per lui e si mette contro tutti i suoi amici. Ma tira avanti, con la speranza che un giorno potrà portare l’amata figlia a fare delle immersioni in fondali ancora più belli di quelli della costa calabrese. Eccolo dunque il momento che farà scattare la molla della reazione in Marcello, come un cane di paglia. Quando durante un’immersione con la figlia, Marcello è costretto a tornare su in fretta rischiando di morire. Non ce la fa più nemmeno ad andare sott’acqua. Le botte prese, la dura vita del carcere (che sapientemente Garrone evita di mostrare ma della quale percepiamo tutto il disagio quando assistiamo all’arrivo in prigione del protagonista) e soprattutto uno stato di malessere che ora priva Marcello anche dell’ultima cosa preziosa che gli era rimasta e che poteva condividere con la sua piccola. Ora è deciso ad avere i soldi che gli spettano per poter cambiare vita. La scena nella quale assistiamo alla presa di coscienza di Marcello, sulla spiaggia, da solo, è da antologia. Con uno stratagemma attira Simone nel salone e lì riesce a rinchiuderlo. Per ora non vuole ucciderlo ma soltanto fargli capire che lui è stanco, la situazione deve cambiare. Vuole le scuse. Marcello è pieno d’amore fino in fondo e forse non avrebbe nemmeno mai ucciso Simone se le cose non fossero precipitate all’interno del locale. Si vede costretto a farlo per salvare la propria vita, ma una volta fatto si sente eroe. Per caso ma eroe. Lo vuole dire ai suoi amici che addirittura volevano assoldare qualcuno per eliminare Simone. Sente di essersi sacrificato alla causa della Liberazione dal Male. Lo vorrebbe urlare al mondo. E come un povero Cristo porta la croce sulle esili spalle. Una croce pesantissima, tutta la mole di Simone è lì, sulle sue spalle. Quando si ferma sulla piazza del quartiere lascia cadere il corpo di Simone. Il respiro affannato di Marcello copre qualsiasi altro suono. Ma poi riesce a calmarsi. Intorno a lui non c’è nessuno.
Marco Castrichella (18 maggio 2018)
 
Phantom Thread di Paul Thomas Anderson
PHANTOM THREAD di Paul Thomas Anderson
« Kiss me, my girl, before I’m sick. »
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Due parole per un film che, dopo tre anni esatti, segna il ritorno di Paul Thomas Anderson. Nel panorama statunitense colui che, insieme a Malick e pochi altri, tiene alto il vessillo del cinema d’autore a stelle e strisce. Il che, sgombrando subito il campo da facili conclusioni e ironie, non significa che faccia solo e sempre film straordinari. Però li fa con un’attenzione e con un gusto che è difficile non riconoscere e non riconoscergli. Dal precedente Inherent Vice, commedia grottesca e romantica ispirata da un romanzo complicatissimo di uno dei più sballati scrittori della West Coast freak degli anni settanta, con Phantom Thread il salto è grande anche perché si passa innanzi tutto a un cinema altamente estetico, che definirei gotico. Ambientazione inglese anni cinquanta senza però quella maniacale e ossessiva ricerca dei particolari per farci respirare l’aria di quegli anni (cosa che aveva limitato molto secondo me la bellezza di Carol di Todd Haynes). Per PTA la forma, come già per Il Petroliere e The Master, è solo una chiave per aprire tante porte successive. Perché nei film drammatici di PTA sono i meccanismi comportamentali e quelli psicologici a dominare la scena. Viene alla mente, vedendo Phantom Thread, il primo Hitchcock statunitense, quello dei grandi film romanzati come Rebecca e Suspicion soprattutto ma anche quello de Il caso Paradine o Under Capricorn. E non ditemi che quei film ce li ricordiamo per i costumi o per le scenografie seppur bellissime. Si parla di amore, ma anche di sudditanze psicologiche, di sessualità repressa, di complessi edipici e di sogni mai raccontati. E allora tornando al nuovo film di PTA diciamo subito che è Alma (la semi sconosciuta attrice Vicky Krieps, perfetta nel ruolo) la vera e unica protagonista del film. Alma la ragazzina di un paese lontano, la campagnola, l’ignorante con zero classe, non bella e per nulla affascinante. Non a caso è lei che narra la storia in flash-back prima di arrivare al finale del film. Il bel sarto Woodcock (sarà davvero l’ultima fatica per Daniel Day-Lewis?) non è altro che l’uomo che lei, la contadina ignorante, vuole avere come uomo perché se ne innamora veramente e non si accontenta di averlo come feticcio di quello che rappresenta, ovvero uno dei più prestigiosi, apprezzati e maniacali sarti d’alta moda di quegli anni. Nel film Woodcock non ha rivali uomini accanto, ma solo donne (a proposito è straordinaria Lesley Manville nei panni della sorella Cyril) che hanno segnato e segnano le sue manie e i suoi comportamenti. Che Alma vuole e deve cambiare, costi quel che costi. Riguardo la trama e i meccanismi del film non vado oltre anche perché la suspense c’è, eccome se c’è. Due parole per la splendida fotografia che per la prima volta viene curata direttamente da PTA. E per quelle musiche avvolgenti, fluttuanti e continue che sono la caratteristica di molti dei suoi film composte da Jonny Greenwood, il chitarrista dei Radiohead. Infine un paio di note a margine della visione di ieri sera. La prima di elogio per la scelta dell’Intrastevere di proiettare la pellicola in versione originale premiata con una sala piena di lunedì sera ovvero il giorno della neve a Roma! La seconda di biasimo per la casa di distribuzione italiana che nella locandina ha posto in alto con i caratteri più grandi del titolo l’aggettivo “MOZZAFIATO”. Roba da carcere. E poi noi a Hollywood che vendiamo i poster dei film da 40 anni come la giustifichiamo questa oscenità?!?
Marco Castrichella 27/02/2018
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Premi e Mostre Mauro Fagiani

MAURO FAGIANI

 

Le mie fotografie su:

Witness Journal N° 31 Kite Festival 2010

Witness Journal N° 18 Sitll Free 2009

Witness Journal N° 09 I Cantieri di Alang 2003

Peacereporter.net

Premi:

Premi Menzione d’onore al "CPF- Travel With Us" CruisePhotoFactory 2011

Premio Miglior Soggetto al Premio Ischia Fotografia 2010

Mostre

“Percorsi di storia minore 2002”

-      ART CAFE’ Roma

-   Sala Espositiva Biblioteca Elsa Morante Ostia Roma

” India  2003?

-  Libreria ODRADEK Roma

-   SCUDERIE PALAZZO COLONNA Genazzano Roma

“Kite Festival 2010?

-   Libreria BIBLI via dei fienaroli 28  Roma dal 15 Aprile al 2 Maggio 2010

” Still Free ” the Writers Art

-   Occhirossi 2010 Festival indipendente di Fotografia seconda edizione  “CSOA Forte Prenestino

 
GAGARIN: FIRST IN SPACE di Pavel Parkhomenko (2013)

GAGARIN: FIRST IN SPACE di Pavel Parkhomenko (2013)

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"Gagarin. Pervyy v kosmose" (Gagarin: Primo nello spazio) è un film di produzione russa del 2013.

Il regista, Pavel Parkhomenko, quasi sconosciuto in Italia, ha curato la scenografia di diversi film tra i quali Cargo 200.

La pellicola viene prodotta dalla Kremlin Films ed è forse il primo vero film che ripercorre l'eroica impresa di Yuri Gagarin, il primo uomo ad essere stato nello spazio.

 

 

Il film si apre nella data del 12 Aprile 1961, a poche ore dal lancio della navicella Vostok 1, un momento che segnerà la storia delle agenzie spaziali e della scoperta dell'ignoto. Tutti sappiamo quali siano state le gesta del soldato Gagarin, forse non tutti però conoscono il percorso personale dell'uomo, il risvolto della medaglia, le sue origini.

E' tramite lunghi flashback che il regista ci accompagnerà nelle rigide campagne russe, durante l'invasione nazista, e ci racconterà l'infanzia di un bambino "qualunque", figlio di un falegname e di una contadina. Un'infanzia legata alla passione per l'aria, il volo, lo studio ma anche fortemente segnata dalla fame e dalla paura della guerra.

 

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Le immagini spettacolari a cui siamo abituati nei film americani sono, in "Gagarin: Primo nello Spazio" ridotte al minimo. Non ci troviamo di fronte ad un action movie, ma ad una biografia reale e "terrena".

Ci viene raccontata la fatica dell'addestramento, l'affiatamento tra i cosmonauti selezionati per la missione e le invidie tra gli stessi. Quello che ci viene proposto è una storia fatta di uomini, non di spettacolarità filmiche.

 

 

Scopriremo che la riuscita della missione non sarà solo merito della scienza, ma anche e soprattutto dalla forza di un uomo fuori dal comune. Gagarin verrà lanciato nello spazio con strumentazioni sufficienti alla missione ma nulla più, il ritorno sulla terra sarà fisicamente duro e sarà bello scoprire a quali sensazioni il cosmonauta associerà, solo per dirne una, il peso delle G negative e positive. Cosa passa nella mente di una persona che sta vivendo tutto questo? Gagarin stesso racconterà che non era paura. Il moto vorticoso della Vostok 1 durante il rientro, verrà associato alla sua infanzia, a quando la mamma lo prendeva per mano e lo faceva girare forte per fargli provare la sensazione del volo. Si potrebbe quasi pensare ad un film su un eroe "troppo perfetto" per essere vero, ma sappiamo tutti che Yuri Gagarin è esistito davvero e che lui è stato il "Primo nello Spazio"

Da vedere - Assolutamente si. 

Djordja

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Le altre recensioni di Marco e Djordja

 

 


 

 
VALHALLA RISING di Nicolas Winding Refn

 

VALHALLA RISING - REGNO DI SANGUE di Nicolas Winding Refn (2009)

 

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Nicolas Winding Refn torna a collaborare con Mads Mikkelsen, dopo la trilogia "Pusher". La pellicola viene presentata fuori concorso alla 66' Mostra di Venezia ed in concorso al Toronto Film Festival.

"Valhalla Rising" esce poco prima degli ultimi grandi successi di Refn, "Drive" (2011) e "Solo Dio perdona" (2013), poco conosciuto a causa di problemi di distribuzione, è probabilmente uno dei film più potenti e stilisticamente caratterizzanti del regista Danese.

Suddiviso in sei capitoli ben distinti, la storia racconta il viaggio di uno schiavo vichingo, One-eye (Mads Mikkelsen) ed un bambino pagano, verso la libertà.

Chi pensa di trovarsi di fronte ad una visione stile "Game of Thrones" è di gran lunga fuori strada. Ogni momento della vita dei due verrà narrata con una riflessione filmica introspettiva che non ci farà solo seguire gli eventi, ce li farà vivere.

La ricerca della libertà e la fuga da un mondo ostile è quello che ciascuno di noi sogna di poter attuare. Quello che non vorremmo ci mancasse mai, è la lucidità di riconoscere nei peggiori momenti chi ci ha aiutati davvero.

E' proprio questo che fa One-Eye, prigioniero di feroci vikinghi che lo liberano solo per fare combattimenti dove a vincere è chi non muore. Riuscitosi a liberare dalle catene ucciderà tutti, salvando solo e soltanto il giovane bambino pagano che era incaricato di portargli i pasti e l'acqua.

Anche se tenuto schiavo, come un cane da combattimento, riesce a scorgere la purezza di un ragazzo che non è partecipe di quel mondo, ma che, anche se in modo diverso dal proprio, ne è vittima.

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Quando siamo finalmente liberi il rischio è quello di sentirsi persi, di provare la sensazione che soli non si può davvero vivere, che qualcuno o qualcosa, un'entità superiore deve poterci aiutare.

I due incontreranno così i cristiani in viaggio verso la Terra Santa. Si uniranno al loro cammino, al cammino di chi, pieno di se, confonde l'orgoglio religioso con la spiritualità.

L'inferno si mostrerà ai loro occhi in mare ed in terra, non ci sarà bisogno di combattere contro gli infedeli, perchè i primi infedeli sono proprio coloro che aiutano con un fine ben preciso.

 

In una parte indefinita di questo mondo, chissà, forse un purgatorio, i sedicenti bigotti religiosi troveranno ad attenderli la ferocia repressa. Ognuno, alla fine, raccoglie ciò che semina e se la speranza e la pace fanno parte del nostro essere, allora sarà davvero presente la grazia.

"Valhalla Rising" è un film poeticamente violento, espiatorio, non religioso ma etereo.

L'ho adorato.

 

Djordja

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