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Le recensioni del Boss e Djordja
SHAME di Steve McQueen

 

Schermata 01-2455945 alle 13.49.58     Attesissimo da settembre, dall'ultimo Festival di Venezia, arrivato in sala e finalmente visto ieri sera il secondo film del giovane regista inglese Steve McQueen del quale forse non si sa molto ma del quale sicuramente resta impossibile dimenticarne il nome.
Impossibile da dimenticare anche il titolo del film e finalmente un applauso alla BIM che lo ha distribuito senza aggiungere, tradurre o manipolare nulla. Un titolo che racchiude come vedremo l'essenza del film. Secondo plauso agli amici del Nuovo Sacher che hanno aumentato a due i giorni di proiezione in versione originale del film e questa per i puristi del Cinema è gioia vera, inoltre lunedì e martedì sono anche a mio avviso i due giorni più belli per frequentare le sale.
Detto questo tornerei alla presentazione dell'autore di "Shame", il giovane englishman di origine africana dal nome e cognome così hollywoodiani. Steve McQueen si era presentato quattro anni fa vincendo la Caméra d'Or per la migliore opera prima al 61° Festival di Cannes con "Hunger" ispirato alle ultime settimane di vita di Bobby Sands, interpretato dal tedesco Michael Fassbender all'epoca ancora poco conosciuto e che anche in "Shame" è protagonista assoluto della storia e della scena.
"Shame" è totalmente ambientato a New York e narra la via senza ritorno di Brandon, un uomo totalmente in preda all'idea e alla pratica del sesso. La sua "malattia" del sesso è vissuta in maniera insaziabile con prostitute, donne e uomini occasionali, riviste, siti hard o addirittura in momenti inaspettati da solo sotto la doccia o andando a urinare durante una pausa di lavoro. Chi aprirà la valvola alla pressione della macchina-Brandon sarà l'arrivo in città della sorellina Sissey, una fragile, dolcemente ingrassata Carey Mulligan che ha molti aspetti in comune con l'Irene di "Drive".
Come "Hunger" anche "Shame" è ambientato in uno spazio temporale estremamente ridotto e ha una connotazione fortemente "British" a cominciare dalla fotografia e dalla non-necessità di esplicare tutto con la sceneggiatura. Ecco. Ho appena fatto riferimento a uno degli elementi che daranno a questo film il mio alto gradimento: se forse il plot di "Shame" è fin troppo chiaro e privo di colpi di scena è vero che molte inquadrature (e almeno tre o quattro in particolare) sono splendide evocazioni e suggestioni che il regista ci da l'opportunità di riuscire a cogliere in perfetta autonomia di visione grazie a una fotografia asciutta, primi piani soffertissimi e mai "lacrimosi", carrellate sulle vie di una New York notturna che dai tempi di "After hours" di Scorsese non rivedevo (e che mi chiedo se Woody Allen abbia mai vista) e infine a una scelta delle musiche, sia quelle originali di Harry Escott che i motivi classici di J.S.Bach, che danno un senso doloroso ma profondamente spirituale al calvario di Brandon.
Brandon è incapace d'amare e addirittura di corteggiare. Se ci prova fallisce anche in quello che è il suo "impegno" quotidiano, la sua attività principale. L'unica persona che può farlo piangere o arrabbiare è Sissey che in una bellissima e jazzata versione di "New York, New York" riuscirà anche a smuovere quella pietra di suo fratello. Si, perché il testo di questa canzone che tutti noi fischiettiamo allegramente è in realtà il rovescio della medaglia di una città che dietro le luci e i divertimenti a portata di mano nasconde gli affanni e le frustrazioni di tante singole persone.
Altro grande merito del film oltre allo stile artistico e alla bravura di un Michael Fassbender giustamente premiato con la Coppa Volpi è senz'altro la scelta più che coraggiosa del soggetto. Se fino a oggi la sesso-mania o comunque la necessità del sesso come unico elemento vitale per nascondere altre mancanze era stata narrata (e in alcuni film anche molto bene) in versione di legame di coppia ecco che il regista inglese focalizza il tutto su un solo personaggio che sicuramente qualcosa di brutto nella propria infanzia avrà pur vissuto (lo si intuisce da una frase della sorella nel finale del film "Noi non siamo brutti, siamo cresciuti in posti brutti").
Se capolavori come "L'impero dei sensi" o "Ultimo tango a Parigi" e più recentemente "Une liaison pornographique" o anche "Intimacy" hanno splendidamente raccontato questo tema riguardo la coppia, non ricordo film di questo livello puntati su un singolo, sulla dipendenza dal sesso in una realtà solitaria come quella vista ieri sera in "Shame".
La disperazione di un uomo che anche quando per un attimo o per un giorno decide di buttare via tutto per pensare ad altro, non trova niente intorno che possa sostituire la "droga" della quale è ormai schiavo. E come per i drogati incalliti non c'è più soddifazione neanche appena assunta l'ennesima dose ma solo all'idea di procurarsela così in quel preciso momento, in quello che dovrebbe essere il momento del godimento, del piacere c'è la smorfia di dolore di Brandon.
E della sua infinita solitudine. Chapeau!

Marco Castrichella (18/01/2012)

 
J. EDGAR di Clint Eastwood

 

J. EDGAR di Clint Eastwood

Schermata 01-2455934 alle 17.29.43Prima visione del nuovo anno con il buon vecchio Clint Eastwood che ritorna al biopic o meglio alla riscrittura della recente Storia americana. Dopo un paio di film intimisti (l'ultimo "Hereafter" addirittura sul contatto dei vivi con la morte) torna sul suo terreno preferito, quello che gli permette ricostruzioni con documentazioni storiche accurate con tanto di costumi e scenografie impeccabili. Riconosciamo da subito il Clint di film come "Bird" o "Invictus" e ancor di più del dittico su Iwo Jima. Per la sceneggiatura si avvale questa volta del giovane Dustin Lance Black lanciato a Hollywood dallo script di un altro biopic importante vale a dire "Milk" diretto da Gus Van Sant.
Eastwood accetta e si imbarca in un racconto a piani temporali alternati per cui costantemente subiamo sbalzi cronologici piuttosto difficili da digerire soprattutto per l'effetto "trucco" sui tre protagonisti principali della storia. I tre attori diciamolo subito a scanso di equivoci sono in stato di grazia: Di Caprio / J.Edgar Hoover è monumentale e regge sulle spalle buona parte del lungo film (135 minuti), Naomi Watts / Helen Gandy rinuncia a qualsiasi connottato da bellissima per intepretare la fedelissima segretaria che accompagnerà J.Edgar dall'inizio alla fine, e infine Armie Hammer / Clyde Holson braccio destro di Hoover nemmeno troppo segretamente di lui innamorato ma non corrisposto, sebbene appagato da intere giornate, pranzi e divertimenti condivisi con la sua anima gemella. L'omosessualità repressa di Hoover è presentissima nelle disgressioni eastwoodiane nell'Hoover privato, quello che nessun americano ha mai potuto conoscere visto che i dossier li ha inventati proprio lui.
Edgar J. Hoover è un personaggio se vogliamo molto simile al nostrano "Divo" Giulio, un uomo che dal 1924 fino alla morte (nel 1972) è stato direttore della F.B.I. sopravvivendo a ben otto Presidenti degli Stati Uniti d'America. Quando il Presidente Coolidge lo mise a capo del Bureau il servizio investigativo federale contava appena 600 agenti, disarmati e inefficienti ai fini di qualsiasi inchiesta quanto un burocrate di secondo piano. Con Hoover il reparto arrivò negli anni sessanta a 6.000 agenti e negli anni Hoover approntò il più efficiente archivio di impronte digitali, di dossier personali e laboratori scientifici puntualmente usati per processi di qualsiasi tipo, soprattutto per quelli politici. Di dichiarati ideali conservatori spesso agiva al limite e oltre le regole per ottenere il risultato finale, sempre lo stesso: l'annientamento dei potenziali "nemici" della democrazia americana.
Tutto questo a onore di Eastwood viene fuori anche se in modo caotico e a volte stucchevole: c'è infatti quel lato personale che tutto sommato permette allo spettatore di impietosirsi di fronte al rude e spietato G-Man. Che poi tanto coraggioso non è... sempre in seconda fila, un vigliacco forse, che ha bisogno di una scrivania rialzata per sentirsi superiore ma anche di fumetti, interviste, biografie inventate che ne narrano improbabili arresti di temibili gangsters.
I saliscendi narrativi sono il sale ma anche il limite di questo film: curatissimo ma frettoloso in alcuni passaggi fondamentali, dilatato, melenso e ripetitivo in altre situazioni, leggi il rapimento del figlio di Lindbergh o le scenne con la madre (una impeccabile Judi Dench). E poi come dicevo all'inizio il "racconto" della latente omosessualità del protagonista diventa troppo rilevante rispetto all'altissimo interesse della biografia, un po lo stesso errore che segnò a mio parere "Bird" film meraviglioso ma troppo incentrato sul rapporto di Charlie Parker con la droga.
Colonna sonora del tutto assente con un unico tema al piano, naturalmente dello stesso Clint. Anche qui un eccesso, stavolta di assenza.
Nota di merito al Fiamma che ha programmato il film nella sala grande doppiato e per noi "pochi" puristi una splendida versione originale in sala 3.
La più bella sala 3 di Roma.

Marco Castrichella (07/01/2012)

 
MIRACOLO A LE HAVRE di Aki Kaurismaki

 

Schermata 12-2455904 alle 16.08.51MIRACOLO A LE HAVRE di Aki Kaurismaki

 

A distanza di poche sere ho assistito ai nuovi film di due riferimenti certi della commedia contemporanea, entrambi così romantici ma anche così distanti fra loro per cultura, linguaggio cinematografico e stile. Sto parlando di Woody Allen con il suo “Midnight in Paris” e del finlandese Aki Kaurismaki con “Miracolo a Le Havre”.

In questa loro ultima prova i due sono ancora più accostabili in quanto la messa in scena è quella di due fiabe, ebbene tutto il “dolce-romantico-intellettuale” profuso da Woody (al quale voglio un bene totale e smisurato, sia chiaro) e che ha riempito le mie “pupille-gustative” domenica scorsa è stato spazzato via ieri sera dal miracolo di Aki.

Alla seconda sala del Quattro Fontane (prima direi per qualità e comodità rispetto alla sala 1) dopo pochi minuti siamo già in atmosfera Aki con tutti i punti fermi del suo Cinema: stanze spoglie di onestissime case di povera gente con l’essenziale arredamento un tavolo due sedie una cucina economica niente di più se non una immancabile radio a transistor, un divanetto e un fiore a centro tavola. I colori pastello dell’appartamento li ritroviamo tutti all’interno dei bar che come sempre sono il luogo di ritrovo per eccellenza dei personaggi di A.K. di questi distinti e impeccabili clochard davanti a un bicchiere di Ricard o di birra. Se l’estrazione culturale non fosse così lontana dalla nostra, verrebbe da pensare agli avventori delle osterie di fuori porta di Gucciniana memoria dove davanti a un bicchiere di vino si parlava d’amore e di filosofia spicciola. I personaggi del mondo kaurismakiano sono filosofi nati, anti-intellettuali e nella loro povertà mantengono una dignità e una classe che nei circoli esclusivi se le sognano. E’ proprio questo un altro elemento immutabile nei film di A.K. l’orgoglio sia comportamentale che dialettico dei suoi protagonisti che sono perdenti ed emarginati solo al cospetto di questa società borghese, ottusa e classista. Come a suo tempo lo è stato Charlie Chaplin con il suo “Charlot”, A.K. e i suoi eroi sono i veri, autentici antagonisti alla selvaggia globalizzazione: Marcel che non casualmente di cognome fa Marx è un ex- bohémien ora lustrascarpe ambulante nella città portuale di Le Havre. E il suo mondo è fatto di un amore totale e sobrio verso la moglie, la devotissima Arletty (anche qui nome-hommage all’attrice di Les enfants du Paradis) è fatto di un quartiere di casette e negozietti quasi irreale nel mondo nevrotico di oggi, di automobili vintage in stile anni sessanta di bolscevica memoria.

Il cameo del rocker di origini italiane “Little Bob” è da antologia come tutte le parentesi-concerto nei film di A.K. Questo Roberto Piazza che a metà degli anni settanta si traferì in Francia con la sua rock-band e finì in tour di spalla a gruppi gloriosi come The Inmates, The Clash, The Lord of the new church, The Sex Pistols, Motorhead, The Stranglers. Qui appare in un Reunion-concert con la nobile finalità di rimediare i soldi necessari alla fuga londinese del clandestino Idrissa.

E poi in questo nuovo film c’è la figura bellissima del commissario Monet (!!) uno straordinario e tristissimo Jean-Pierre Darrousin che “riscatta” la sua figura di poliziotto in un pre-finale che ci riporta a Casablanca con la rinnovata amicizia fra il Rick/Humphrey Bogart e il capitano Renault/Claude Rains.

Proprio il finale dal doppio-miracolo allontana questo ultimo lavoro di Kaurismaki dai precedenti e qui molti hanno storto il naso, ma che fosse una favola lo si sapeva dal titolo ragazzi miei... lui non ha velleità di riempire le sale come qualcun altro avvalendosi degli attori migliori e di battute a ritmo vertiginoso. Aki non ci “marcia”. Mai. Solo che anche per questi “angeli” prima o poi la sorte deve girare. L’abnegazione e la solidarietà disinteressata che Marcel Marx mette sul tavolo per aiutare il giovanissimo Idrissa è un atto di fede immenso che il destino seppure cieco non può fare a meno di vedere. C’è una infinita poesia nel fatto che Marcel non sa della vera situazione di Arletty e quindi dedica tutto se stesso alla “sistemazione” del povero clandestino. E allora ben venga il finale con il misero ciliegio in fiore.

Il doppio miracolo è lì a premiare chi si sporca le mani, chi crede solo al bene perché non conosce il male come ci hanno insegnato film come “The kid” di Chaplin o “Life is wonderful” di Capra.

Evviva i miracoli, soprattutto se sono doppi.

 

Marco Castrichella (08/12/2011)

 
UNA SEPARAZIONE di Asghar Farhadi

una separazione E' l'ultimo Orso d'oro di Berlino, il film che ho avuto il piacere di vedere ieri pomeriggio al Nuovo Sacher.
Il regista iraniano Farhadi replica o meglio consolida l'ottima impressione suscitata con il precedente "About Elly" anche questo presentato e premiato, con l'Orso d'argento, alla Berlinale del 2009. Tematiche e ambientazioni sono simili al film precedente e comunque rappresentano la naturale evoluzione della fantastica stagione del neo-realismo iraniano che tanti grandi film e autori ha affermato negli ultimi venticinque anni. Se i primi film di Kiarosami, Makmalbaf, Ghobadi, Panahi e altri raccontavano il difficile ma naturale passaggio da una cultura rurale alle nuove contaminazioni del progresso, Farhadi alza il tiro e racconta la crisi di coppie borghesi più o meno abbienti. Ma non solo. Nella sua "separazione" rientra anche il difficile rapporto con la giustizia, con la religione, con la scuola e soprattutto con la nuovissima generazione: quei figli troppo spesso non considerati. Come per la ormai consolidata crisi della società occidentale, anche in medio oriente l'egoismo e la depressione dei "grandi" entra in un tunnel senza luce che vede spettatrice passiva una annichilita generazione di bambini che non capiscono il perchè di tanta tristezza. Fin dal titolo e dalla prima scena (stupenda) girata in soggettiva dagli occhi del giudice assistiamo a un confronto che è uno scontro, acceso nei toni e nelle decisioni ma non nei fatti, apparentemente risolvibile, almeno agli occhi della figlia della coppia che non puï e non vuole credere a dover scegliere uno dei due genitori. Lei li vuole entrambi e il bravissimo regista iraniano "tira" tutto il film senza schierarsi e inducendo anche noi a credere a entrambi i contendenti. Naturalmente la bolla aumenta e coinvolge altri personaggi e situazioni, per questo la sintesi del titolo è ideale per far capire che "una separazione" non è solo "la separazione" ma porta con se un fiume di scorie e detriti in grado di travolgere ogni cosa: intelligenza, affetti, speranze e soprattutto futuro. Ho parlato all'inizio di religione, giustizia e scuola; si perchè nel film i naturali luoghi e le persone che dovrebbero sbrogliare certe "piccole" matasse latitano, si nascondono o non offrono alcun riparo a chi ha la sventura di dover affrontare certe situazioni. Se l'aspetto del soggetto e del contenuto è dunque di alto livello non da meno lo è l'aspetto cinematografico-stilistico. Il realismo di Farhadi è avvincente ed emozionante quanto non potrà mai esserlo un documentario. Riprese tecnicamente evolute per il cinema iraniano con un montaggio serrato ma mai caotico. Gli attori sono di una naturalezza impressionante e i due attori protagonisti Leila Hatami e Peyman Moadi non a caso sono stati premiati entrambi con l'Orso d'argento insieme al resto del cast. Una nota particolare per aver rivisto con piacere nelle vesti del giudice delle denunce incrociate nella seconda parte del film l'amico hollywoodiano della prima ora Babak Karimi, montatore, attore, produttore nonchè distributore dei primi film iraniani in Italia degli anni ottanta, "Bashù" su tutti. Azzeccatissima anche la scelta dei luoghi: alcune scene nelle aule del tribunale o per strada sembrano "rubate" al tran-tran di ogni giorno. Il montare del plot è costante come lo potevano essere ai loro tempi un "Bellissima" di Visconti o un "Ladri di biciclette" di De Sica. C'è infatti un contatto da parte dello spettatore con tutti i protagonisti della storia che è quasi fisico o comunque di forte "condivisione" dei problemi. Basti pensare alla situazione del vecchio padre del protagonista maschile o alla piccola figlia della donna incinta che va ad occuparsi della casa in assenza della protagonista-separata. E' proprio grazie a film come questi che tocchiamo finalmente un'essenza del vicino oriente che invece fino ad oggi era limitata alla commiserazione o a una vaga indignazione e basta, mai oltre la condanna di un regime conservatore o di una cultura repressiva. Con "Una separazione" i temi e i problemi sviscerati da Farhadi sono i nostri, sono identici a quelli di una coppia italiana, francese o svedese che sia. Ma senza indugi o drammatizzazioni gratuite. E' la vita che dobbiamo affrontare nostro malgrado per alienazione o incompatibilità che sia. 

E ci accorgiamo che il mondo iraniano non è poi così lontano.

Marco Castrichella (28/11/2011)

 
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