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Le recensioni del Boss e Djordja
HUNGER di Steve McQueen

 

Schermata 05-2456053 alle 16.04.49HUNGER di Steve McQueen

E infine arrivò in sala. Anche nel nostro Belpaese. Merito di “Shame” forse e quindi del regista londinese di origine africana Steve McQueen o del “bel” Michael Fassbender attore sulla cresta dell’onda, chissà. Forse di entrambi visto che la coppia è la stessa del capolavoro della scorsa stagione. Resta il fatto che “Hunger” nel 2008 ebbe un ottimo impatto al 61° Festival di Cannes dove il giovane regista ricevette l’ambitissima Camera d’Or. Ad “Hunger” venne riconosciuta con questo premio giustamente la straordinaria padronanza del mezzo da parte dell’autore, convinto di poter raccontare una storia già celebrata ma non dal punto di vista mediatico e nemmeno storico bensì “portando” gli occhi dello spettatore a vivere l’esperienza fisica e spirituale durissima, drammatica ma anche liberatoria che Bobby Sands nel 1981 decise di condurre a oltranza fino alla propria estinzione lasciandosi morire per inedia non toccando più nessun alimento per 66 giorni consecutivi.

Steve McQueen addirittura per una lunga parte iniziale, circa un terzo del film, nemmeno lo fa vedere Sands. Non serve allo scopo del suo film. Preferisce seguire (e mai verbo è stato più calzante) con la mdp uno dei carcerieri del Maze il “labirinto” di Long Kesh. Questo Raymond Lohan addirittura è protagonista della scena, perché il dolore costante alle mani, le nocche insanguinate hanno una chiara spiegazione. Per i repubblicani irlandesi dell’IRA che arrivano agli H-Blocks voluti dalla signora Tatcher la segregazione è un inferno. Non ci sono diritti umanitari li dentro, ne tanto meno un riconoscimento politico. Sono considerati terroristi a tutti gli effetti. E l’unico “indotto” mediatico del film scelto dal regista sono proprio due scarni, surreali comunicati della Iron Lady alla radio: la ascoltiamo parlare di “criminali” mentre per l’ennesima volta Steve McQueen ci porta a percorrere i corridoi del Maze e lasciare i nostri occhi e il nostro cuore sulla negazione totale dei più elementari diritti di un detenuto.

La forma di protesta in questo momento, prima ancora dell’entrata in scena di Bobby Sands, è quella del “Blanket Protest” ovvero del rifiuto dai parte dei detenuti dell’uniforme carceraria e quindi di restare nudi con una sola coperta di lana a protezione del freddo e la “Dirty Protest” quasi un’artistica forma di tingere le pareti delle celle con i propri escrementi e inondare i corridoi del Maze con le proprie urine.

hunger1La dose di violenza alla quale assistiamo seguendo Lohan è inaudita e si incrocia con l’arrivo in carcere del giovane detenuto Davey Gillen. Davey dividerà la cella con un altro detenuto repubblicano dissidente, Gerry Campbell. Questi gli insegnerà un minimo di difesa e soprattutto come convogliare la protesta attraverso Bobby Sands il leader dei detenuti dell’IRA al Maze, capace nei modi più stravaganti di far uscire dal carcere il proprio pensiero e le proprie poesie. Ma le forme di protesta non stanno ottenendo alcun risultato anzi inaspriscono la repressione all’interno del carcere e fuori sul movimento.

E’ proprio in questo momento storico (siamo nel marzo del 1981) e del film che tutto cambia.

michael-fassbender-in-una-scena-del-filmDecisiva l’idea di McQueen di “appoggiare” la mdp su un tavolo ed osservare da un solo lato, con un magnifico unico piano sequenza, il colloquio fra Bobby Sands e Padre Dominic Moran durante il quale Sands comunica la decisione di portare fino in fondo uno sciopero della fame per smuovere l’opinione pubblica e soprattutto per far capire al governo inglese che per la libertà si è decisi a morire: "Ero soltanto un ragazzo della working class proveniente da un ghetto nazionalista, ma è la repressione che crea lo spirito rivoluzionario della libertà. Io non mi fermerò fino a quando non realizzerò la liberazione del mio paese, fino a che l'Irlanda non diventerà una, sovrana, indipendente, repubblica socialista". (cit. dal libro “Un giorno della mia vita”)

È una scena fondamentale per molti aspetti. Perché si entra nella storia ufficiale ma anche personale degli irlandesi occupati. Perché si parla di strategia politica ma anche di estrazione sociale e culturale. E poi perché da questo momento Sands (attraverso un magnifico momento di recitazione da parte di Fassbender) acquisisce la sua dimensione storica e spirituale. Se all’inizio del colloquio il prete dimostra una certa baldanza e facilità alla battuta alla fine resta ammutolito, spiazzato e arreso alla decisione estrema del detenuto. Infine la scena è drammaturgicamente di svolta perché da questo momento scompare la violenza. Lasciamo il Blocco-H per entrare nel reparto ospedaliero del carcere. C’è luce ora nella stanza, il pulito e il bianco prendono possesso della scena e da ora in poi affioreranno sempre di più i momenti dei ricordi, di poesia vera, di senso di libertà e di avvicinamento totale a Madre Natura che si appresta a riabbracciare Bobby. Questa d’altronde è anche l’unica via di fuga dal quotidiano deperimento per Bobby Sands. Lo assistiamo e lo sosteniamo in questa via crucis. Anche noi respiriamo meglio quando verso la fine dei 66 giorni sempre più forte e nitida ritorna la presenza del giovanissimo Bobby che corre a perdifiato per i suoi boschi e lungo i suoi fiumi. Con i genitori di nuovo vicini. Fino all’ultimo respiro.

Hunger-StrikeA fronte di questo percorso non un solo momento di falso pietismo ci viene indotto dal regista che non si perde certo a mostrare le centinaia di manifestazioni che pur ci sono state all’esterno in quei giorni, in Irlanda come nel resto del mondo. Non una scena tratta dai giornali o dalle televisioni. Non una del funerale ne delle celebrazioni. Steve McQueen non esce dal Maze ma resta con Bobby e noi con lui.

Assolutamente intimista, scarno, intenso e meraviglioso fino alla fine. Come il miglior Bresson o Dardenne. E raccontare la Storia, quella degli eroi delle giuste cause senza cadere in questo trabocchetto è un merito non da poco.

Per concludere vorrei ricordare che come per una magica coincidenza il mio commento al film “Hunger” visto ieri sera, avviene proprio nell’anniversario della morte di Bobby Sands.

Era il 5 maggio 1981. Io avevo già 22 anni e qualche eccesso di idealismo era già rientrato ma la figura di Bobby Sands e del suo martirio mai, nemmeno per un solo momento, mi hanno abbandonato in tutti questi anni. E che un film così bello sia stato realizzato sulla sua vicenda, beh questo mi commuove e gli rende giustizia.

Marco Castrichella (05/05/2012)

 

 
CESARE DEVE MORIRE di Paolo e Vittorio Taviani

 

CESARE DEVE MORIRE di Paolo e Vittorio Taviani

cesare deve morireCon la giusta e doverosa decantazione per smaltire gli effetti trionfalistici di Berlino, ieri sera sono andato a vedere l’opera dei fratelli Taviani che si è aggiudicata quest’anno il premio più prestigioso del Festival tedesco ovvero l’Orso d’oro come miglior film in competizione.

Visto naturalmente al Nuovo Sacher di casa Moretti. Nanni è stato premiato per la sua ennesima prova di lungimiranza, per aver acquisito cioè i diritti di distribuzione del film prima ancora della vittoria alla Berlinale, quando ancora i fratelli toscani bussavano alle porte serrate a doppia mandata dei vari distributori italiani naturalmente scettici, per usare un eufemismo, sulle possibilità di fare botteghino per un film di tali contenuti. E invece ieri sera a distanza di una settimana dalla prima, abbiamo trovato sala del Sacher quasi piena con altri cinque cinema romani in contemporanea. Non male.

Passando al film, per sgombrare il campo da ogni equivoco, dirò subito che “Cesare deve morire” vale. E vale tanto ora quanto pesa.

Primo, per la scelta stilistica totalmente anacronistica, da teatro d’avanguardia degli anni settanta che ovviamente nel panorama odierno risulta rivoluzionaria e fresca come una ventata di aria gelata sul polveroso “cinemino-italiano” di oggi.

Secondo, perché permettere oggi a dei condannati al carcere duro di esprimersi con una preziosissima doppia forma d’arte (teatro/cinema simultaneamente) ha un valore decisamente più alto e più emozionante di duecento puntate di ballarò o porta a porta che siano.

Terzo, perché si conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, la tesi che un film può inchiodarti alla poltrona e farti vibrare anche se a recitare non trovi ne Pacino ne Branagh, tanto per restare in campo shakespeariano, ma è bensì l’autore con la sua “idea” di cinema a usare soggetti che hanno potenzialità e capacità espressive ancora vergini, tutte da scoprire e da far esplodere davanti a una platea o ad una cinepresa.

Questo hanno fatto Paolo e Vittorio, coraggiosamente e vista la loro età anche con una buona dose di incoscienza . Hanno preso una delle tragedie del Bardo fra le più dimenticate dal teatro e dal cinema, personalmente ricordo soltanto la bella ma fin troppo formale versione diretta da Mankiewicz nel 1953. Giulio Cesare che però guarda caso è fra le più attuali. Si parla di Potere in “Giulio Cesare” di Shakespeare, di quello con la P maiuscola è vero, ma tutti sappiamo che di tutte le tragedie è quella che più di ogni altra mette a fuoco il tema dell’amicizia, della condivisione del destino. E in quale altro luogo più del carcere il tema della fedeltà ha un ruolo così vitale?

cesare dev morire 1Altra scelta vincente dei fratelli pisani è stata quella conseguente alla sequenza “carcere-attori non professionisti”. Cioè quella di far recitare ognuno dei protagonisti con il proprio dialetto o quantomeno con la propria cadenza gergale. La carica emozionale nel recitare situazioni tragiche ha qualcosa di molto, molto vicino alla reale vita precedente alla reclusione dei vari attori. Tradurla in lingua italiana e peggio ancora in prosa non avrebbe avuto senso, anzi poteva risultare ridicolo. Basterà l’esempio di una fra le scene più belle del film quando Salvatore Striano/Bruto (unico dopo Gomorra ad aver intrapreso la strada della recitazione) provando la battuta dello “squarcio sul petto di Cesare” rivive in quell’istante la stessa sensazione provata sulla strada con il suo compagno di delitti.

La struttura del film è piuttosto semplice e quindi di facile fruizione per tutti: inizio a colori con la scena finale della rappresentazione di “Giulio Cesare” nella sala di Rebibbia, fra gli applausi del pubblico di parenti e amici, l’orgoglio e la soddisfazione di regista e attori e il triste ritorno alla realtà cioè in cella. Da qui parte un flash-back in bianco e nero , quasi acciaio, in un digitale esteticamente molto bello. La durata della “ripartenza” del film è di 6 mesi. Tutto il film è qui: saranno i 6 mesi delle prove fino al finale già visto. Dai provini per la scelta dei personaggi, alle scene nei corridoi, nelle celle, nel cortile dove fra l’altro avviene la famosa orazione di Marc’Antonio solo in questo piccolo spazio con la “platea romana” rappresentata dai reclusi attaccati alle grate di Rebibbia. Bellissimo.

cesare deve morireIl film fra l’altro mantiene, nonostante l’alta drammatizzazione anche un prezioso aspetto documentaristico grazie anche al misurato intervento delle musiche, composte da Giovanni Taviani, giovane figlio di Vittorio insieme a Carmelo Travia. Un motivo piuttosto semplice ma profondo, così rigoroso da scandire l’arrivo puntuale della notte su Rebibbia, la notte che segna il ritorno in cella per tutti, eroi e traditori, vittime e carnefici.

Personalmente non ho condiviso la chiusura con la ripetizione del finale già visto all’inizio del film e magari avrei chiuso con la stupenda auto-confessione di Cosimo Rega/Cassio da solo, in cella che si accorge di essere in prigione solo da quando ha conosciuto l’Arte.

E Cassio è uomo d’onore…

Marco Castrichella (10/03/2012)

 

 

 

 
...E ORA PARLIAMO DI KEVIN di Lynne Ramsay

 

Schermata 02-2455986 alle 18.28.06   Atteso dal Festival di Cannes della scorsa stagione è infine arrivato, si fa per dire, nelle nostre sale uno dei pochi autentici film d'autore: "We need to talk about Kevin" diretto dalla giovane regista inglese Lynne Ramsay.
Per noi fortunati spettatori romani la programmazione ha previsto unica sala il Barberini, non oso pensare cosa abbia dovuto fare un appassionato leccese o un trevigiano per poter assistere alla proiezione, forse il biglietto d'ingresso era abbinato a un volo low-cost.

Comunque, dicevo autentico film d'autore riferendomi al fatto che, a parte i soliti noti che l'autorialità se la possono permettere (vedi Malick, Lars Von Trier e ultimamente Nicolas Winding Refn) è diventato sempre più raro assistere a seconde o addirittura in questo caso a terze opere che non debbano scendere a patti con il demone del box-office. Si perchè seppure piuttosto giovane la nostra Lynne è al suo terzo lungometraggio dopo l'esordio notevole di "Ratcatcher" (1999) e il seguente "Morvern Callar" (2002). Un cinema per niente facile quello di Lynne Ramsay, fatto di suspence e di ossessioni, ma che puntualmente al momento del colpo di scena, vede arrestare l'azione narrativa per tornare indietro o addirittura volare oltre a raccontare angosce precedenti o future della protagonista. Protagonista si e al femminile a dispetto del titolo perché se è vero che nel film si parla di Kevin, la protagonista assoluta è Eva, madre di Kevin e non casualmente, per il nome che porta, madre di tutti noi, prima procreatrice di questa santa Terra destinata a generare il Male. Eva è una straordinaria Tilda Swinton che nel suo essere anoressico-androgino raccoglie tutta l'essenza della madre spiazzata, affranta, angosciata da una gravidanza, da una maternità e da un "dopo" che possiamo cogliere e vivere insieme a lei fin dai titoli di testa.

Il suo camminare insicura, inciampando con queste scarpe deformate, indossate da un piede troppo magro e a disagio, rimane una immagine indelebile, che nella scena finale avrà un significato enorme. Il desiderio sarebbe di vederla camminare scalza per non vederla soffrire, magari come Jessica Chastain la signora O'Brien di "The Tree of life" che sembra danzare, libera e in armonia con Schermata 02-2455986 alle 18.29.39Madre Natura sull'erba del giardino con i suoi figlioletti. Ma questa è un'altra storia. Tornando all'opening del film, grande significato ha la scena iniziale che ricorderebbe a prescindere dalla successiva apparizione della Swinton, il grandissimo regista inglese Derek Jarman del quale l'attrice era strumento indispensabile per le proprie opere. Non a caso fotografia e messa in scena per Lynne Ramsay sono di uno stile quasi pittorico, durissime nell'essenza ma romanticissime nella forma, proprio come per Jarman.

E dire che qualcuno del film alla sua presentazione a Cannes aveva parlato di "film-horror". Ma come si può? Come è possibile focalizzare e ridurre questo film alla sola natura "evil" di Kevin? Se alcune venature horror sono presenti nel film, è solare che da parte di Lynne Ramsay non c'è nessuna intenzione di fare un film di genere: non dobbiamo sottostare ad alcun sussulto sulla poltrona, a musiche "da paura" o peggio a movimenti di macchina nevrotici e caotici tipici del genere horror. Il film scaturisce dalla cultura inglese ed è radicato in modo così netto che mai per un momento ci è dato pensare ai thriller made in USA.
In questo e in molto altro Lynne Ramsay da garanzia di autorialità, di scuola e tradizione culturale che fanno del suo "We need to talk about Kevin" un prodotto spiazzante ma esaltante, angoscioso ma poetico. Una ventata di forte personalità in un panorama cinematografico fin troppo omologato in questi ultimi anni.
La sensazione al termine della visione, o meglio il "sapore" che lascia il film della Ramsay è lo stesso provato vedendo "Lasciami entrare" Schermata 02-2455986 alle 18.29.28di Tomas Alfredson alla sua uscita: qualcosa di nuovo e di classico allo stesso tempo, qualcosa di irripetibile nonostante molti ci proveranno...

Marco Castrichella (28/02/2012)

 
THE ARTIST & HUGO CABRET

 

Schermata 02-2455978 alle 19.23.02THE ARTIST & HUGO CABRET

Come in un doppio sogno di stampo kubrickiano mi risveglio con la necessità di commentare brevemente due film in uno. E non a caso.
The Artist e Hugo Cabret sono due film con poco da analizzare. Due film trasversali, direi "immediati" nel senso buono del termine. Diciamo pure due "Cinema Paradiso"...
Il commento nella forma inedita "due in uno" è perché in primis sono i due film che dovrebbero contendersi la serie infinita di statuette nella imminente kermesse di Hollywood e già questo la dice lunga.
Secondo, le due pellicole sono, ognuna a suo modo, una dichiarazione d'amore verso il Cinema delle origini.
Terzo motivo se dopo la visione del film francese non avevo tanta voglia e necessità di scriverne, la visione di ieri pomeriggio di Hugo mi ha spinto a "riesumare" le sensazioni avute durante e dopo la visione di "The Artist" di circa un mese fa.
Dunque dicevo che i due film sono due atti d'amore verso la settima arte. Ma se Scorsese parte da Melies e dalle origini del Cinema per farci capire quanto sia bello, vitale e magico entrare ancora oggi in una sala cinematografica e innamorarsene, Hazanavicius "usa" il cinema muto come chiave sentimentale per raccontare una semplice storia d'amore. I due percorsi si incrociano, vero, ma proveniendo da parti opposte.
Il francese Hazanavicius racconta una storia americana con gli occhi del nostalgico europeo per il buon vecchio cinema muto in bianco e nero, mentre il più americano dei registi contemporanei Martin Scorsese usa il 3D quindi il massimo della modernità tecnologica per raccontare le avventure di un ragazzino francese prigioniero dei suoi sogni e della Parigi di inizio secolo dove il Cinema nasce senza stelle, studios o divi. Esattamente l'opposto.
Addirittura il mago delle origini del Cinema vive in un anonimato commovente, molto più del bel divo americano decaduto per colpa dell'avvento del sonoro.
Il primo si chiama Georges Méliès ed è un pioniere, il secondo è uno delle tante star consumate dall'infernale meccanismo hollywoodiano.
Se Hazanavicius ricorda il passato ma non dichiara un bel niente pur sapendo comunque raccontare una romantica storia d'amore con bellissime musiche e un delizioso bianco e nero, Scorsese dichiara tutto il suo amore non per il "movie-system" ma per la sala, per la cinepresa, per la pellicola, per il montaggio, per il sapore del Cinema. Alla maniera di Francois Truffaut per intenderci, e come per molti film di Truffaut chi meglio dei bambini può incarnare lo spirito immaginifico del Cinema? Naturalmente per far questo ci porta dove il Cinema è nato: a Parigi. In una stazione dove vive il piccolo Hugo e non a caso dove i fratelli Lumiere fecero le loro primissime riprese, dove sono nate le prime sale di proiezione. Proprio in Europa dove il Cinema era ancora... magìa prima ancora che spettacolo e industria come poi sapientemente gli americani avrebbero saputo fare.
Ecco è questo l'aspetto dei due film che mi premeva sottolineare anche se naturalmente c'è molto altro in "Hugo Cabret": il passaggio del tempo scandito dagli ingranaggi impietosi degli orologi della stazione, l'automa con tutte le implicazioni e le citazioni del caso, l'infanzia rubata, la mancanza dei genitori, la ricerca dell'anima gemella, lo scopo della propria esistenza.... <<Mi piace immaginare che il mondo sia un unico grande meccanismo. Sai, le macchine non hanno pezzi in più. Hanno esattamente il numero e il tipo di pezzi che servono. Così io penso che se il mondo è una grande macchina, io devo essere qui per qualche motivo. E anche tu!>>.
Che dire? Viva il Cinema e quindi Viva The Artist e Viva Hugo Cabret.
Anche se i brividi e un tuffo al cuore l'ho provato solo quando ieri pomeriggio scorrevano le immagini del Viaggio nella Luna e guarda caso proprio in quel momento il mio nipotino Yuri dalla sua poltrona con un balzo si è venuto a mettere sulle mie ginocchia per vedere meglio cosa stava succedendo su quel "magico" schermo.... naturalmente con gli occhialini in 3D!!

Marco Castrichella (20/02/2012)

 
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