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Phantom Thread di Paul Thomas Anderson
PHANTOM THREAD di Paul Thomas Anderson
« Kiss me, my girl, before I’m sick. »
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Due parole per un film che, dopo tre anni esatti, segna il ritorno di Paul Thomas Anderson. Nel panorama statunitense colui che, insieme a Malick e pochi altri, tiene alto il vessillo del cinema d’autore a stelle e strisce. Il che, sgombrando subito il campo da facili conclusioni e ironie, non significa che faccia solo e sempre film straordinari. Però li fa con un’attenzione e con un gusto che è difficile non riconoscere e non riconoscergli. Dal precedente Inherent Vice, commedia grottesca e romantica ispirata da un romanzo complicatissimo di uno dei più sballati scrittori della West Coast freak degli anni settanta, con Phantom Thread il salto è grande anche perché si passa innanzi tutto a un cinema altamente estetico, che definirei gotico. Ambientazione inglese anni cinquanta senza però quella maniacale e ossessiva ricerca dei particolari per farci respirare l’aria di quegli anni (cosa che aveva limitato molto secondo me la bellezza di Carol di Todd Haynes). Per PTA la forma, come già per Il Petroliere e The Master, è solo una chiave per aprire tante porte successive. Perché nei film drammatici di PTA sono i meccanismi comportamentali e quelli psicologici a dominare la scena. Viene alla mente, vedendo Phantom Thread, il primo Hitchcock statunitense, quello dei grandi film romanzati come Rebecca e Suspicion soprattutto ma anche quello de Il caso Paradine o Under Capricorn. E non ditemi che quei film ce li ricordiamo per i costumi o per le scenografie seppur bellissime. Si parla di amore, ma anche di sudditanze psicologiche, di sessualità repressa, di complessi edipici e di sogni mai raccontati. E allora tornando al nuovo film di PTA diciamo subito che è Alma (la semi sconosciuta attrice Vicky Krieps, perfetta nel ruolo) la vera e unica protagonista del film. Alma la ragazzina di un paese lontano, la campagnola, l’ignorante con zero classe, non bella e per nulla affascinante. Non a caso è lei che narra la storia in flash-back prima di arrivare al finale del film. Il bel sarto Woodcock (sarà davvero l’ultima fatica per Daniel Day-Lewis?) non è altro che l’uomo che lei, la contadina ignorante, vuole avere come uomo perché se ne innamora veramente e non si accontenta di averlo come feticcio di quello che rappresenta, ovvero uno dei più prestigiosi, apprezzati e maniacali sarti d’alta moda di quegli anni. Nel film Woodcock non ha rivali uomini accanto, ma solo donne (a proposito è straordinaria Lesley Manville nei panni della sorella Cyril) che hanno segnato e segnano le sue manie e i suoi comportamenti. Che Alma vuole e deve cambiare, costi quel che costi. Riguardo la trama e i meccanismi del film non vado oltre anche perché la suspense c’è, eccome se c’è. Due parole per la splendida fotografia che per la prima volta viene curata direttamente da PTA. E per quelle musiche avvolgenti, fluttuanti e continue che sono la caratteristica di molti dei suoi film composte da Jonny Greenwood, il chitarrista dei Radiohead. Infine un paio di note a margine della visione di ieri sera. La prima di elogio per la scelta dell’Intrastevere di proiettare la pellicola in versione originale premiata con una sala piena di lunedì sera ovvero il giorno della neve a Roma! La seconda di biasimo per la casa di distribuzione italiana che nella locandina ha posto in alto con i caratteri più grandi del titolo l’aggettivo “MOZZAFIATO”. Roba da carcere. E poi noi a Hollywood che vendiamo i poster dei film da 40 anni come la giustifichiamo questa oscenità?!?
Marco Castrichella 27/02/2018
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