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Le recensioni del Boss e Djordja
PIETA’ di Kim Ki-Duk

 

PIETA’ di Kim Ki-Duk

piet-teaser-poster-internazionale    Ancora dall’estremo oriente, ancora da Kim Ki-Duk arriva quel film che ne cancella almeno la metà di tutti quelli visti durante l’ultima stagione. E se è vero che ancora mancano al mio appello le visioni di alcuni titoli dell’ultima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, in primis quello di Paul Thomas Anderson, del francese Assayas e dell’austriaco Ulrich Seidl che hanno conteso il Leone d’Oro a Kim Ki-Duk, sicuramente il massimo riconoscimento del Festival è andato a finire in buone mani.

E’ pur vero che nella ricca filmografia del regista sud-coreano, giunto al suo 18° film, si sono toccate vette più alte ma ricordiamo anche che abbiamo rischiato di perdere per sempre il suo talento. Non tutti sanno infatti che il regista ha avuto un tracollo fisico e psicologico dopo che la protagonista del suo film “Dream” del 2008, ha rischiato di morire durante la scena del suicidio per impiccagione prevista dal copione. In seguito a questa tragedia sfiorata Kim Ki-Duk si è ritirato in solitudine in alta montagna per quasi tre anni, tagliando i ponti con la sua casa di produzione e con tutta la sua troupe. Questa triste e toccante vicenda è riuscito poi a raccontarla nel documentario “Arirang” (2011) che poi è anche il titolo anche del canto che il regista ha intonato nel bellissimo fuori programma durante la premiazione a Venezia.

Tornando a “Pieta” (l’accento non esiste nel titolo originale) la mia drastica affermazione iniziale è dovuta al fatto che quando assisti a un film come questo ti ritrovi immediatamente sbalzato, fin dalle prime sequenze, su un altro piano di lettura e di interpretazione rispetto a quelli ai quali siamo abituati. E non vorrei dire che questo sia un piano più elevato, ma sicuramente differente lo è. Le scene si susseguono come tavole, come quadri di una mostra, che grazie a una fotografia e a una scelta cromatica di rara bellezza, ti obbligano a una profonda attenzione prima e interpretazione poi. E se entri nel gioco del regista che nulla o poco ti suggerisce, allora è bello lasciarsi andare a queste vibrazioni. Scene ricche di simbolismi, vedi le rapide incursioni in scena di animali come galline, conigli, anguille, riferimenti in alcuni casi più chiari in altri più misteriosi; scene di sesso raccontate con una risolutezza e una semplicità che nulla lasciano all’erotismo, come ultimamente forse solo Steve McQueen con “Shame” nel cinema occidentale è riuscito a fare. Le sensazioni di fronte a queste immagini dunque non sempre sono positive e comunque mai confortevoli. Se di dolore ormai ne sono piene le pellicole di mezzo mondo è altrettanto vero che pochissimi autori sanno darne un senso così elevato. L’inizio del film in particolare è un susseguirsi di scene piuttosto violente, talvolta molto crude, per descrivere la vita di un ragazzo solo, di nome Kang-Do, incaricato di riscuotere i soldi delle vittime di uno strozzino. Povera gente che ovviamente non riesce a pagare interessi fuori dal comune. Per ottenere comunque lo scopo, ovvero il denaro, li costringe a delle mutilazioni sotto forma di incidenti di lavoro per poi incassare l’assicurazione.

pietaTutto questo va avanti fin quando si materializza davanti agli occhi del protagonista una donna, la magnifica attrice Cho Min-Soo, che sostiene di essere la madre che lo abbandonò da piccolo. E da qui il film entra nella sua fase più emozionate, altissima seppure perversa, quasi liturgica e che porterà Kang-Do (e noi con lui) a scoprire alcune parti da sempre sepolte del suo animo.

400x3001347204672228KimIl regista coreano ha cercato ad ogni modo di puntare il dito contro la natura malvagia del “Dio Denaro”. Della nostra dipendenza da esso e delle nefandezze che si compiono in suo nome. Dando una immagine della vita quotidiana dei protagonisti come quella di un calvario in una tristissima periferia dove i grattacieli si vedono solamente sullo sfondo, affacciandosi a finestre di stanze povere, tristi e tremendamente sporche. Addirittura le vittime dell’usuraio vivono in seminterrati appena illuminati e per loro come per i topi è impensabile una vita all’esterno, al sole o al verde che chissà se nemmeno esistono. Ma poi alla resa dei conti il succo del film e del suo carisma è tutto sul rapporto ragazzo/madre da li nasce l’evoluzione della spietatezza come se i due personaggi principali fossero due vasi comunicanti. All’umanizzazione dell’uno corrisponde la realizzazione dell’altra. In che modo ovviamente lo vedrete o la avete già visto. Non lo dirò qui. Ma ricordando la scena iniziale e quella finale il brivido che ha impiegato il percorso di un intero film, proprio quel brivido si ricompone.

Marco Castrichella (21/09/2012) 

 
GLI EQUILIBRISTI di Ivano De Matteo

 

gli-equilibristi-la-locandina-del-filmGLI EQUILIBRISTI di Ivano De Matteo

Forse al terzo lungometraggio e dopo una serie di documentari e cortometraggi, il regista Ivano De Matteo ce l’ha fatta a ritagliarsi un meritato spazio nel panorama del Cinema italiano. Con “Gli equilibristi” presentato nella prestigiosa rassegna veneziana ‘Orizzonti’ ha scaldato i cuori e le mani di molti critici e di tanti spettatori. Il giovane regista romano che spesso appare in veste d’attore in film di altri registi non ha dovuto cambiare registro per approdare a questo parziale successo. Poteva indurlo a fare una scelta diversa la scandalosa mancata distribuzione del precedente “La bella gente” del 2009 vincitore al festival francese di Annecy e che contava oltretutto su un cast di rilievo (Elio Germano, Iaia Forte, Monica Guerritore e Antonio Catania). Anche in quel film si percepiva la capacità di Ivano De Matteo di saper raccontare un’Italia vera, malata, narrata con durezza, ma anche con un grande respiro cinematografico tale da non poter essere confuso con un cinema di stampo documentaristico. La drammatizzazione dei personaggi che popolano le storie di De Matteo è forte ma mai eccessiva, se ti giri poco intorno te li ritrovi tutti davanti ogni giorno ed ogni sera, sia i suoi protagonisti che le figure più sfumate.

Ecco che con “Gli equilibristi” un salto in avanti per Ivano avviene, grazie alla decisione di puntare l’obiettivo principale su un solo personaggio, senza ovviamente trascurare gli altri. Ovvero se il protagonista Giulio, un Valerio Mastandrea in stato di grazia, vede proiettato su di se il fascio di luce privilegiato, se lo seguiamo passo per passo dal risveglio la mattina fino a notte inoltrata, non da meno valgono per interesse drammaturgico le figure dei suoi colleghi di lavoro, della moglie e dei due figli, di tutta la fauna di emarginati che lungo la strada della disperazione si presenteranno davanti agli occhi sempre più smarriti di Giulio, un uomo prima forte abbastanza da decidere di accollarsi sacrifici e colpe sulle proprie spalle per poi non avere più la forza nemmeno di parlare.

 

                                                                                                                                    

        Gli-equilibristi Il soggetto scelto dalla compagna del regista, la bravissima Valentina Ferlan, che ha scritto anche la sceneggiatura insieme a Ivano, è tutto qui. Un soggetto che, come lo fu per il francese “A tempo pieno” di Laurent Cantet, ha la forza della spaventosa attualità e va giù duro sulle colpe di una società che schiaccia come insetti le esistenze di numerose famiglie del ceto medio. Per queste famiglie che alla fine del mese devono far quadrare i conti con i salti mortali, da veri equilibristi, incappare in un incidente di percorso come potrebbe essere una separazione, può diventare letale. In una delle battute più significative del film viene espresso questo elementare concetto: “Giulio, lo vuoi un consiglio? Tornatene a casa, il divorzio è per quelli ricchi.” Al contrario di quello che è stato uno dei migliori film della scorsa stagione, il capolavoro iraniano “Una separazione” di Asghar Farhadi, Ivano De Matteo non vuole raccontare la cronaca della separazione e quello che questa comporta a livello di legami sentimentali e intellettuali nella coppia. Lui affonda il suo sguardo e quindi il nostro, sulla perdita concreta dei protagonisti, di un padre che lentamente, inesorabilmente vede allontanarsi la casa, la moglie e i due piccoli figli sperando sempre di poter riassestare tutto grazie al lavoro, doppio, triplo se possibile. La crisi in questo senso ti affonda. Un amore finito può darti dolore ma l’aspetto materiale di una separazione ti trascina giù, ti ritrovi ad affogare per non voler chiedere aiuto. Forse perché sei convinto di saper nuotare e di arrivare a riva sano e salvo.

Ho accennato all’inizio di un grande Mastandrea che forse in ruoli come questo da il meglio di se. Questa volta ha fatto il miracolo di avere la cinepresa sempre ‘addosso’ e di saperla sostenere in modo superlativo. Dalle battute sarcastiche, alle quali ci ha ormai abituato, di inizio film per arrivare all’abbrutimento fisico e morale del finale del film. Un vero campionario di recitazione. Addirittura da solo e senza sottofondo musicale avrebbe potuto sostenere anche quelle scene in cui sta fumando una sigaretta o se ne va sbandato per le strade di una Roma talmente bella e triste perché inusuale, mai vista prima al cinema. Proprio qui secondo me s’è stato un abuso delle musiche che troppo romantiche, troppo spesso e troppo forte hanno sottolineato alcuni momenti fondamentali del film.

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Se ripensando a quelle scene avessimo potuto ascoltare i rumori di fondo di una città distante dal dramma di Giulio forse qualche corda in più avrebbe vibrato in noi. Come nella splendida scena del ritorno a casa per la cena di Natale, dove è il silenzio e l’imbarazzo dagli sguardi a diventare protagonista, dove anche il rumore di una forchetta e di un piatto rendono la scena ‘madre’. Ma ovviamente non si può chiedere a un autore di realizzare scene del quotidiano come lo farebbe un Bresson, un Rossellini o in tempi più recenti i fratelli Dardenne. Ivano ha il suo stile ed è giusto rispettarlo, dico solo che stavolta l’intensità delle immagini così come sono state riprese gli avrebbero permesso di evitare quella che per molti registi è un compendio a qualcosa che manca nel girato. Naturalmente terminerò il mio commento con un altro complimento: l’incipit del film e della tragedia familiare è nella scena iniziale fra gli scaffali dell’ufficio dell’Anagrafe dove lavora Giulio. Girata da maestro.   

Vedere per credere. E l’invito si estende a tutto il film. “Gli equilibristi” è degno delle nostre emozioni e della nostra storia.

Marco Castrichella (19/09/2012)

 

 

 
L’INTERVALLO di Leonardo Di Costanzo

lintervallo-poster-italia midL’INTERVALLO di Leonardo Di Costanzo

C’era un piccolo film fra quelli presentati a Venezia 69 nella sezione ‘Orizzonti’. Tanto piccolo da stupire per bellezza e originalità, come una perla rara. Il lavoro del regista Di Costanzo, proveniente dal serbatoio sempre più ricco di idee che è quello del Cinema-Documentario, è stato semplice ed essenziale ovvero come raccontare il disagio dei giovanissimi in una terra sottomessa in larga parte alla malavita. Stiamo parlando di Napoli e di camorra ovviamente. La prima scelta vincente è stata il linguaggio, una scelta di recitazione di stampo “teatrale”, sullo sfondo di un vecchio e cadente collegio abbandonato che diventa la ‘prigione’ dei due ragazzi Salvatore e Veronica. Il primo costretto a controllare la seconda per una giornata, una sola giornata delle loro vite rubate da sempre e per sempre al gioco e alla fantasia. Un intervallo dunque, proprio quello del titolo, nel quale bene o male la vera natura dei due adolescenti ha il sopravvento sul brutto, sullo squallido, sulla violenza. Seconda scelta vincente è stata quella di puntare sulla spontaneità emanata dai due giovani attori al loro primo ruolo, due ragazzi di strada per una recitazione fra il saggio scolastico e la dialettica realista, quasi disarmante tipica di questa età e di queste zone. Salvatore recita con il fisico, con gli occhi, è timido e conciso ma non perde un passaggio, la vita se la deve già guadagnare e sa dove mettere i piedi e soprattutto a chi non pestarli. Veronica invece è sfrontata, orgogliosa di una bellezza acerba che non esiste, deve ancora arrivare e quando parla è una lama di coltello, con quella cadenza ‘eduardiana’ capace di ridimensionare l’importanza di ogni cosa.

 

 

intervalloE infine altro grande pregio del film è il fatto, a mio giudizio decisivo, di riuscire in un contesto così duro a non mostrare nessuna arma, forse un cacciavite utile per spaccare il ghiaccio per le granatine, nessuna pistola, non una violenza, al massimo uno schiaffo sul volto di Salvatore, non una goccia di sangue se non quella di un ginocchio sbucciato. C’è si, una presenza forte della violenza, ma che si odora soltanto, non viene mai messa in scena. La violenza trasuda, grazie alla fotografia magistrale di Luca Bigazzi, dai muri del vecchio edificio e dal giardino-giungla che lo circonda. Un labirinto dove sono chiusi Salvatore-Teseo e Veronica-Arianna che anche quando riescono ad uscire fisicamente si ritrovano in un giardino anch’esso labirinto inestricabile. E quando Veronica troverà l’uscita la paura di perdere o meglio di far accadere qualcosa di brutto a Salvatore, la porterà indietro sui suoi passi a difendere la propria innocenza e quella del suo carceriere. C’era un piccolo film, dicevo all’inizio del commento, ma alla fine “L’intervallo” è il film che in tutta la Mostra veneziana ha ottenuto più riconoscimenti. Premi minori, certo, ma ne ha ottenuti addirittura sette!! Molti di più del Leone d’Oro “Pieta” o degli attesissimi nuovi film di P.T. Anderson e T. Malick. E’ bello elencarli e ricordarli tutti e sette anche se sono certo che i riconoscimenti di Venezia per “L’intervallo” non sono finiti qui: Premio Fipresci (della Federazione internazionale dei critici cinematografici), Lanterna Magica (dei Cinecircoli Giovanili Socioculturali in collaborazione con il Comitato per la cinematografia dei ragazzi); Pasinetti, del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici; Fedic (Federazione Italiana dei Cineclub); CICT-Unesco Enrico Fulchignoni; l'Aif-Forfilmfest e l'Uk-Italy Creative Industries Award-Best Innovative Budget.

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Altrettanto bello è citare il monologo di apertura che meglio e più forte di qualsiasi mio racconto può dare l’idea perfetta di questa storia:

“Succede che gli uccelli che vivono in gabbia,

 anche se gli apri la porta non fuggono.
I cardellini, a volte, dalla rabbia si scagliano contro le sbarre.

Ma pure loro, se gli apri la griglia non scappano.

Se ne stanno lì, in un angolo, a guardare Forse sono tentati di volare via, ma non trovano il coraggio.

Mio padre mi ha spiegato che tra gli uccelli piccoli
il pettirosso è quello più coraggioso,
non ha paura di niente.

A volte lo senti che canta di notte, per sfidare il buio.
Anche l’usignolo canta di notte, ma solo quand’è in amore.

Allora può succedere che anche un orecchio esperto
scambia un canto di sfida per un canto d’amore…”

 

 

Marco Castrichella (11/09/2012)

 
BELLA ADDORMENTATA di Marco Bellocchio

locandina-bella-addormentataBELLA ADDORMENTATA di Marco Bellocchio


Uno dei primi arrivi in sala provenienti dalla 69° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia è la nuova opera del regista italiano Marco Bellocchio. Uno dei pochi autori formatisi negli anni sessanta ancora in piena attività e che già con i suoi ultimi lavori come “Vincere” e soprattutto “Sorelle Mai”, ha dimostrato di avere ancora tante cose da dire nella sua carriera ancora in piena evoluzione.
Quindi ieri sera, cercando di evitare per quanto possibile i commenti di chi aveva già visto il film a Venezia, mi sono avvicinato alla visione di “Bella addormentata” con tanta voglia di grande schermo (è da maggio che in Italia non si vedono nuovi film nelle sale) e con una certa curiosità.
“Bella addormentata” è un film corale di eccezionale portata. Stranamente per Bellocchio è un film concentrato in un brevissimo spazio temporale , a differenza dei suoi due ultimi sopra citati. Ovviamente niente di riconducibile a “Short cuts” di Altman, “Magnolia” di P.T.Anderson o “Crash” di Paul Haggis. Marco Bellocchio forse insieme ai fratelli Taviani è quanto di più lontano esista dal cinema americano. Lo è per cultura ma anche per linguaggio cinematografico, le tensioni provocate dai protagonisti non sono finalizzate alla storia ma alla nostra emotività o meglio alla nostra esperienza. Un film del genere non può essere definito riuscito o meno, ben fatto o lacunoso, un film come “Bella addormentata” ti chiama in causa e ti rende partecipe sempre ovviamente che tu lo voglia. Ti spinge a riflettere sull’educazione ricevuta e su quella che vorresti dare ai tuoi figli. Ti tira in ballo per un urlo di troppo, per una carezza non data o per un abbraccio perduto. E’ la psicologia applicata al cinema e su questo Marco Bellocchio è un maestro che mai andrebbe discusso.
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Dicevo che “Bella addormentata” è un film corale, infatti ci sono più personaggi e più storie che si snodano e che nemmeno tutte si incrociano. Il tutto avviene sullo sfondo di un fatto di cronaca italiana recente. Un evento che risale all’inverno del 2009, ovvero la morte di Eluana Englaro, una ragazza in coma da 17 anni, che ha attirato per un breve periodo l’interesse dei media, della Chiesa e soprattutto della Politica.
Ecco per sgombrare dal campo ogni equivoco quello di Bellocchio non è un film sull’eutanasia e tanto meno sulla vicenda Englaro. Nel film di Bellocchio le istituzioni sono come sempre, più che mai, le assolute protagoniste del film. La Famiglia, la Chiesa, lo Stato. Se c’è una presenza forte sullo sfondo del film è quella dei media e della politica. Una presenza che purtroppo per noi Bellocchio legge benissimo come quella di una classe politica con la p minuscola, una piccola associazione di burattini e burattinai, di teatranti di profilo bassissimo, di gente rubata alle galere. Ma tanto è; non è forse questa l’Italia degli ultimi anni? Lo dicono i fatti. Le inchieste e i processi.  Tanto che viene da chiedersi se la bella addormentata del titolo non sia proprio la nostra nazione.
Si perché altrimenti di belle addormentate nel film oltre a Eluana, che ovviamente non si vede mai, ce ne sono molte… La più addormentata di tutte è Maria la figlia del senatore Beffardi che ha perso la madre in circostanze simili a quelle di Eluana. C’è la figlia della Divina Madre (una clamorosa Isabelle Huppert) che con il suo coma vegetativo affonda sempre più la vita del fratello. Come c’è Federico, un ragazzino folle che dice cose sanissime ma che è anche il freno a mano del fratello Roberto.
Bella-AddormentataE poi c’è Rossa, una tossicodipendente sola come un cane, bella come una favola di Walt Disney, che più volte ha tentato il suicidio e che sarà l’unica a risvegliarsi. Lo farà grazie a un bacio, si proprio come nelle favole. Solo Rossa si risveglia... gli altri si perdono. Rossa non solo si risveglia, ma rende più piacevole il riposo del Principe, dell’Angelo guerriero che l’ha salvata. Non farà nulla di eclatante, niente amore eterno o gioia di vivere ritrovata: toglierà solo quelle brutte, scomode scarpe al suo Principe per farlo dormire comodamente. E per poter finalmente riposare anche lei. E chissà che prima o poi un bravo giovane medico non dia un bacio piccolo, piccolo che possa risvegliare la nostra Italia.
Marco Castrichella  (07/09/12)

 
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