Dal 1983 a ROMA in Via di Monserrato 107 - Tel 066869197 - 0668974451
Hollywood tutto sul cinema
Home Recensioni Le Recensioni del Boss (Marco Castrichella)

Accesso clienti

ISCRIVITI PER RICEVERE GLI AGGIORNAMENTI NOLEGGIO E LE NOVITA' E PROMOZIONI DEL NOSTRO NEGOZIO

Fotolia_14848176_XS

Schermata_11-2455885_alle_06.43.31


Le recensioni del Boss e Djordja
DRIVE di Nicolas Winding Refn *****

drive


Scrivo quasi a caldo su questo film, che arriva da noi in colpevole ritardo rispetto alla presentazione e alla premiazione avvenuta a maggio al Festival di Cannes, dove Nicolas Winding Reft è stato investito del premio più bello, quello per la regia.

Il giovane regista danese sta bruciando le tappe e dopo alcuni coraggiosi quanto apprezzati film in terra madre poi culminati con l’inglese “Bronson” (film di ambientazione carceraria di altissimo livello) sbarca a Hollywood, ma non per firmare il blockbuster di turno che spesso viene proposto ai bravi registi europei in erba. No, lui arriva negli Usa con un film assolutamente di nicchia, anche questo di genere, un film d’azione ma non spettacolare, con buoni mai troppo buoni e cattivi mai malvagi fino in fondo, senza bisogno di eroi o di vigliacchi, senza il bisogno diffuso ormai in ogni film di protagonisti con “un passato difficile da dimenticare”. Un’operazione di recupero vera, di ricerca del miglior action-movie dei tempi belli, con una fotografia straordinariamente credibile, senza troppi ritocchi o perfezionismi, i costumi azzeccati e volutamente sempre quelli dall’inizio alla fine (il giubbotto bianco con lo scorpione dorato del protagonista bianco immacolato all’inizio / sporco alla fine). Senza ostentazione del montaggio o della macchina a mano, con alcune scene rallentate sottolineate da una scelta delle musiche assolutamente originale (notare che gli slow motion sono solo nelle scene fra Drive e la ragazza, mai per le scene d’auto che invece sono tutte a velocità naturale). Quindi un film girato “on the road” come si faceva negli anni settanta, come facevano i registi duri, quelli con le maniche tirate su, nelle strade di una Los Angeles vera, riconoscibile anche per me che ci sono stato per soli 5 giorni. Come facevano i vari Sam Pechinpah per “Getaway” e “Voglio la testa di Garcia” (quanti richiami a questo film) come faceva William Friedkin in “The French connection” e in “Vivere e morire a L.A.” o anche (ma a Frisco) Peter Yates per “Bullit”. E poi personalmente, nella trame e soprattutto nelle emozioni provocate ho “risentito” dopo anni qualcosa di unico come il “Gloria” del mito John Cassavetes. Refn non scopiazza ma è intriso dei grandi duri registi del passato. Non ricicla come Tarantino e non replica come De Palma, ma crea dalla sua mente che è cresciuta con gli action-movies americani: paradossalmente nel film le scene di corsa d’auto sono niente in confronto agli interni in officina o in quel corridoio buio del quarto piano del palazzo che è assolutamente protagonista del film, come lo fu il corridoio appunto di “Gloria” o di “Serpico” di Lumet o più recentemente di “Leon” di Luc Besson. E la scena nel locale con le donne del burlesque immobili come bambole, come manichini ci riporta alle “Mean Streets” di Scorsese o a “L’assassinio di un allibratore cinese” di Cassavetes. E come non pensare al bambino portoricano che Gena Rowlands decide di proteggere in “Gloria” rivedendo il piccolo Benicio che fa smuovere l’impassibile Drive di Refn?

Due parole proprio sul protagonista del film interpretato magistralmente e senza alcun volo pindarico da Ryan Gosling già ammirato su “The believer” e su “Il caso Thomas Crawford”. Nel personaggio di Drive, l’attore trova un equilibrio espressivo raro per film del genere: la sua assoluta, apparente tranquillità che mostra guidando “da morire” auto truccate, ma anche davanti alla tivvù guardando i cartoni con il piccolo Benicio o mentre massacra gente cattiva.

Ottima la scelta dei personaggi minori fra i quali spicca il meccanico claudicante in mano al ricatto della malavita e che per debolezza mette nei guai il suo pupillo Drive.

Brava senza strafare anche la giovane madre di Benicio, Irene interpretata da Carey Mulligan che ricordiamo su “An education” o in “Nemico pubblico”. A proposito di Michael Mann... chiudo con lui, perché soprattutto la scena iniziale, prima dei titoli di testa non può non rimandare all’inizio di “Collateral” con una Los Angeles presa di notte, agli incroci e dall’alto: beh credetemi, Refn riesce a far meglio anche del grandissimo maestro del cinema d’azione più raffinato. Perché non ha bisogno di nessun perfezionismo o montaggi da capogiro. Solo il silenzioso motore di un’automobile e la sensazione netta di essere guidati da “Drive”.

 

Marco Castrichella (05/10/2011)

 

 
CARNAGE di Roman Polanski

carnage-roman-polanski-cast-completo


La settimana scorsa ho vissuto il piacevole ritorno alla sala dell’Eurcine, che ricordavo come una delle più confortevoli di tutta Roma. Anche questa ovviamente è stata “frantumata” in 4 mini-sale, ma per fortuna il film scelto era proiettato nella sala più grande e di conseguenza l’impatto traumatico sulla mia memoria è stato notevolmente attutito.

Il film che ho deciso di vedere è stato il nuovo di Roman Polanski “Carnage” fresco reduce dal Festival di Venezia. Plot e messa in scena di assoluto stampo teatrale, due sole inquadrature in esterno a camera fissa nei titoli di testa e nei titoli di coda. Tutto il film si svolge in un appartamento della migliore zona di Brooklyn a NYC. Quindi ci si potrebbe aspettare una cosa tipo “Repulsion” o “La morte e la fanciulla” o ancora “L’inquilino del terzo piano”. Niente di tutto questo: nessun giallo, nessun noir, nessuna “ossessione polanskiana”. Il film è una vera e propria commedia, brillante molto ritmata in perfetto stile Woody Allen con una sceneggiatura scoppiettante tratta dalla omonima pièce teatrale di Yasmina Reza “God of carnage” ovvero “Il dio della carneficina” titolo enfatico che invece per Polanski, come titolo del film, resta semplicemente, tremendamente, soltanto: “Carneficina”.

I protagonisti della storia sono due ragazzini che vediamo appunto solo all’inizio e alla fine, in esterno, da lontano, nemmeno riconoscibili (a proposito uno dei due è il figlio di Roman e vi sfidiamo a indovinare se è la vittima o l’autore del gesto che da il “La” al film). Chi invece irrompe dalla prima scena all’interno dell’appartamento sono loro quattro. Gli attori/genitori/attori che danno una immagine spaventosa della borghesia contemporanea, della upper class newyorchese ma non solo. Potremmo essere tutti noi al loro posto, a cercare di “mediare” una situazione banalissima e di riuscire, come loro, a tirar fuori il peggio di noi. Questa maschera di solidarietà e belle parole che ogni tanto cade e mostra tutte le nostre cicatrici, la nostra non-volontà di capire l’altro, magari attaccandoci ai nostri ridicoli totem, oggetti ridicoli come tazzine decorate, cataloghi di mostre d’arte, whiskey single malt, sigari tropicali, maglioncini sportivi, camicie firmate e stirate, palmari, iPad, iPhone... tutto “ai”...

Polanski non immette il giallo, non crea suspence, non serve più: gli è sufficiente “smascherare” due coppie per creare l’orrore, il massacro: appunto il dio della carneficina.

Qualcosa su questa nuova onda polanskiana si era già avvertita con il precedente “L’uomo nell’ombra” altro film legato a doppio filo con l’attualità, la corruzione e il malessere borghese.

Anche li il “teatrino” era quello di persone artificiose che fra l’altro occupano posti rilevanti nella nostra società. Beh i sottointesi e le allusioni di Polanski sono ancora più feroci in questo “Carnage” dove il malessere per gli atteggiamenti squallidi e banali non è più metaforico: tu ami l’arte? e io ti ci vomito sopra... hai i tulipani più costosi del quartiere? e io te li distruggo... il tuo bellissimo e utilissimo iPhone? te lo immergo nell’acqua!

Non so quanti degli spettatori ridessero (infatti non molto e non molti) perché si ritenessero non-coinvolti in questa “Carneficina” ma una cosa è certa, non è possibile dopo questo film addormentarsi tranquillamente... quindi, chapeau a Roman che pur cambiando le armi rinnova antiche provocazioni e coinvolgimenti. Lo stile alla Hitchcock (impossibile non pensare a “Nodo alla gola” per la messa in scena del dramma) da al film un respiro cinematografico di valore, senza restare ancorato alla ripresa “teatrale”.

Il finale con i due ragazzini lontanissimi da noi che nemmeno riusciamo a sentirli, figuriamoci capirli, mi ha invece inevitabilmente riportato alla mente il finale dello splendido film di Haneke “Cachè”. Non a caso anche li i “mostri” erano le coppie adulte, borghesi ed emancipate.

 

Marco Castrichella (28/09/2011)

 
TERRAFERMA di Emanuele Crialese

terraferma


Visto l’altra sera al Nuovo Sacher l’attesissimo nuovo film di Emanuele Crialese. Attesa di 6 anni dal suo ultimo lavoro “Nuovomondo” con il quale, per mezzi tecnici e artistici a disposizione, Crialese aveva effettuato, con merito, il grande salto alla ribalta. L’attesa è poi diventata ancora maggiore dopo la recente consacrazione del nuovo film al Festival di Venezia dove è stato impalmato con il prestigioso Premio Speciale della Giuria. La storia è circoscritta a un piccolo luogo (un’isola siciliana “nemmeno indicata nelle carte”), ad una unità di tempo (un’estate), ad una famiglia. Quindi un film “asciutto”... neo-realista come “Respiro”? No, niente di tutto questo e aggiungerei purtroppo. Il film è saturo di tematiche, culturali, sociali da renderlo quasi un “manifesto”. Troviamo nell’ordine la famiglia: arcaica di pescatori che vorrebbe/dovrebbe passare alla modernità, l’assenza della figura paterna per il protagonista che non vuole e non sa cambiare, la madre condannata vedova, il nonno che non si arrende, lo zio scaltro e avido. Poi gli indigeni del posto che si “arrangiano” visto che la pesca non rende più quanto serve. Quindi i turisti che arrivano a flotte e “contaminano” la naturalezza del posto con le loro esigenze di divertimento e di ecologismo part-time.  Ecco poi i migranti clandestini anche loro a flotte con i disperati tentativi prima di salvezza e poi di sopravvivenza e integrazione. Non potevano mancare le forze dell’ordine viste sia dagli abitanti che dai clandestini non come forze protettrici e rassicuranti ma come corpo ostile. Direte ma tutto questo è reale è la vita che stiamo vivendo... è così, ma Emanuele Crialese sceglie il modulo a tesi, teatralizzando il tutto, tipo servizio per il tiggì, per raccontarlo. Lo fa a sipari, senza dare quel “RESPIRO” che tanto aveva segnato il suo indimenticabile film di dieci anni fa. Sono tesi, ovvie, banali non tanto per i contenuti sopra citati quanto per la loro messa in scena. Quando cerca la drammatizzazione si sfiora il ridicolo (la scena della riunione dei vecchi pescatori scontatissima con i pro e i contro, o peggio ancora la scena della neonata africana che in braccio alla madre piange a dirotto ma appena arriva fra le braccia di Giulietta, magicamente si addormenta). Non ho percepito emozioni durante la visione, salvo la prima scena che non a caso non ha bisogno di dialoghi, nella poltrona comodissima della sala morettina mi muovevo di continuo e questo la dice lunga su un film che invece dovrebbe scuotere, muovere le coscienze, incollarti alla sedia. Il film sia chiaro ha una sua conformazione e forse anche uno scopo, rimanendo su una sufficiente valutazione, ma le aspettative erano ben altre.

Io credo totalmente nel talento di Emanuele e sono certo che la prossima prova ci sorprenderà, magari con un film fatto di sguardi come la scena/balletto sul ponte della nave di “Nuovomondo” o sempre nello stesso film la scena iniziale con la scalata sacrificale del monte con i sassi in bocca alla ricerca della grazia.

Ti aspettiamo Emanuele, a presto!

 

Marco Castrichella (15 settembre 2011)

 

 
Ruggine di Daniele Gaglianone

ruggine

Fra i primi film presenti a Venezia (in concorso alle Giornate degli Autori) già usciti nelle sale italiane c’è il nuovo film di Daniele Gaglianone “Ruggine” che ieri sera sono andato a vedere nella sempre accogliente e fresca sala trasteverina dell’Alcazar che fra l’altro ha un impianto audio e uno schermo adeguati per essere un cinema di “media” capienza.

Daniele Gaglianone posso dire di averlo seguito fin dai primi passi con molto interesse e stima, dalla collaborazione con Gianni Amelio per il “torinese” “Così ridevano” al suo primo, folgorante lungometraggio “I nostri anni” del 2000 (film introvabile in dvd ma che dovreste fare in modo di vedere in qualche maniera) legato a “Ruggine” a doppio nodo. Seguito dal bellissimo “Nemmeno il destino” (2003) e da “Pietro” presentato l’anno scorso a Locarno.

Il salto forse Daniele lo fa proprio quest’anno con “Ruggine” non tanto per contenuti o per stile che rimangono personali e riconoscibilissimi, ma per avere per la prima volta un cast a disposizione di prim’ordine; Valeria Solarino, Stefano Accorsi, Valerio Mastandrea e Filippo Timi tutti insieme.

Ora la bravura del regista torinese (seppure nato ad Ancona vive in Piemonte dall’età di sei anni) è stata proprio quella di dividere il film in due piani temporali, come per “I nostri anni”, ma sempre senza l’uso smodato del flash-back: in effetti paradossalmente abbiamo la sensazione di vedere in tempo reale il passato e solo come “proiezione” il presente dei tre ragazzini diventati adulti.

E “l’uso” che Daniele fa dei tre attori di spicco (Solarino, Accorsi e Mastandrea) è assolutamente geniale: ognuno agisce in un unico ambiente e in una unica unità temporale, non hanno contatti con l’esterno (quando invece da bambini erano sempre fuori casa, tutti insieme come una banda). Sandro/Accorsi è in un mini appartamento per passare una giornata con il figlioletto, Cinzia/Solarino in un’aula di scuola durante lo scrutinio e un bravissimo Carmine/Mastandrea preda dei fantasmi del passato in un bar di periferia dal quale non riesce ad uscire...

Filippo Timi invece è l’unico “adulto” del passato: ha il ruolo del dottore-malato che segnerà l’infanzia e la maturità dei tre ragazzini, è l’uomo nero che nelle favole mette paura e che nella realtà lo fa ancora di più perché i bambini sono innocenti, non credono al male.

Filippo Timi ha dei personaggi “imposti” per colpa/merito del suo corpo, della sua voce roca, ma quanto è bravo, quanto si fa respingere ma anche compatire quando incarna questi personaggi che fisicamente di sicuro lo mettono a dura prova.

Tornando alla regia di Daniele Gaglianone c’è qualche attenzione di troppo forse per la descrizione degli anni settanta (le figurine, i giochi di strada, le pubblicità, i telefoni, le Simca e le Fiat 126) ma l’ambientazione nel suo insieme è perfetta: la fotografia, i costumi, le luci, i suoni, i rumori e le musiche sono straordinarie (bravo e unico a non usare nemmeno canzone di quegli anni!!)

Attenzione, non lasciate la sala appena vedete i primi titoli di coda: c’è una ultima scena finale stupenda quanto onirica e toccante con la canzone "Un campo lungo cinematografico" suonata da “Le Luci della Centrale Elettrica”.

Ah dimenticavo!! in tutto questo parlare di Cinema il tema trattato nel film è la pedofilia: bravo Daniele anche nell’aver affrontato col massimo pudore un argomento di tale portata.

Ci sono modi per dire cose senza urlare che vanno più a fondo di un coltello.

 

Marco Castrichella (08.09.2011)

 
<< Inizio < Prec. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Succ. > Fine >>

JPAGE_CURRENT_OF_TOTAL

Copyright © 2011-2017 - Hollywood di Marco Castrichella Partita Iva 00709960553
Tutti i diritti riservati - I marchi, loghi ed immagini sono dei rispettivi proprietari. - PRIVACY POLICY

Supporto tecnico Solucom Ltd