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Le recensioni del Boss e Djordja
FAUST di Aleksandr Sokurov

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Proverò a raccontare se non tutte almeno una parte delle sensazioni e impressioni ricevute ieri sera durante la visione del nuovo film del regista russo che appena un mese fa si è aggiudicato il Leone d’oro a Venezia come miglior film. Ho esordito dicendo “proverò” perché gli argomenti e le sollecitazioni che riempiono quest’opera sono molteplici e tutte da considerare.

Il “Faust” chiude la tetralogia sugli uomini e il Potere anche se quest’ultima è ispirata a un personaggio letterario mentre i precedenti tre film erano su personaggi storici realmente esistiti e di rilevanza politica assoluta per il XX secolo: prima “Moloch” (1999) sulla figura privata di Hitler in compagnia di Eva Braun quindi “Taurus” (2001) sugli ultimi giorni di vita di Lenin e infine “Il Sole” (2005) sui giorni della resa giapponese vissuti dall’imperatore Hiroito. Quindi la chiusura con “Faust” naturalmente ispirato al dottore protagonista della tragedia di Goethe. Nella tragedia alla quale Goethe lavorò per tutta la sua vita, il dottor Faust viene avvicinato da Mefistofele che gli promette di fargli vivere un attimo di piacere tale da fargli desiderare che quell'attimo non trascorra mai. In cambio avrebbe avuto la sua anima. Faust da scienziato assetato di sapere e sicuro di se come solo i luminari lo sono, accetta. Il diavolo gli fa conoscere la giovane Margarete la quale si innamora di Faust, inconsapevole del fatto che la carica di Faust è dettata soltanto dal dominio della materia e dalla ricerca del piacere. La sorte di Margarete sarà tragica.

Il regista Sokurov non si discosta molto dal sentiero goethiano ma naturalmente interviene con il suo sguardo, il suo stile inconfondibile, la fotografia così livida e grigia (bravissimo Bruno Delbonnel) che già aveva segnato i precedenti film e che qui trova magicamente la migliore rappresentazione: prima fra grotte cupe, luride che all’occasione da bettole e cucine si trasformano in luoghi per visite mediche e operazioni di vivisezione anatomica, in un borgo tedesco che tanto ricorda quelli narrati da Werner Herzog in Woyzeck o Kaspar Hauser, ma poi in viaggio fra torrenti, boschi e rocce lavate da acque gelide e va detto che la scelta delle locations sia tedesche che islandesi è stata particolarmente curata con degli scenari suggestivi incredibilmente affascinanti e selvaggi.

Il film inizia dove finisce il precedente “Il Sole” vale a dire fra le nuvole dove forse un Dio c’è ed è quello della originaria scommessa con Mefistofele... e poi giù a picco a conoscere l’uomo Faust le sue idee sulla ricerca dell’anima in una scena mostruosamente cruda e violenta. Se Faust non viene visto da Sokurov come l’uomo più affascinante e crudele del mondo (ma in effetti lo è) Satana è realmente brutto come il diavolo mostrato nudo e deriso dalle donne nella splendida scena delle fontane, nella quale vediamo (e Faust vede per la prima volta) Margarete, la fanciulla incredibilmente bella e soave come gli angeli in un dipinto del Cinquecento. La mdp segue i personaggi e come in Arca Russa li avvolge, con un sottofondo appena percettibile di una potente musica sinfonica, doveroso anche qui citare l’autore Andrey Sigle, e soprattutto i personaggi del “Faust” di Sokurov parlano, declamano, dicono moltissimo, la storia non ha misteri è un fiume di dialoghi nella migliore tradizione della cultura russa. Lo script di Sokurov è una sceneggiatura esemplare, ricchissima, completa per forma e contenuti che associata al girato genera il capolavoro.

Faust, sebbene frutto di fantasia, è personaggio quanto mai legato al potere, alla bramosia di successo, di immortalità. Quindi molto aderente ai tempi che viviamo e che, se vogliamo, racchiude da solo i tre leader all’inizio nominati soggetto per la tetralogia di Sokurov. e molti altri ancora che ancora siedono sulle poltrone del potere. Basti pensare a un Putin vista la nazionalità del regista, o anche a un Berlusconi o un Sarkozy qualunque. E ci metterei anche il più grande “Belzebù” ancora vivente, il nostro senatore Giulio il Divo.

 

Marco Castrichella (29/10/2011)

 
RESTLESS di Gus Van Sant

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RESTLESS di Gus Van Sant

E’ possibile accettare la morte quando si è giovani e belli? ...e non solo. E’ possibile accettare la vita quando, giovani e belli, si proviene dalla morte, si è rimasti soli e si va incontro di certo a un altro lutto?

Sembrerebbe di si. O almeno a Hollywood qualcuno ci è riuscito: mister Gus Van Sant, uno dei più sensibili fra i registi americani ha provato a prendere in mano questa storia di Bryce Dallas Howard (la figlia di Ron) a farla sua, artisticamente e stilisticamente destando la nostra ammirazione dopo quella suscitata al Certain Regard dell’ultimo Festival di Cannes.

Le vite dei due protagonisti si incrociano in un momento fatidico: lui, Enoch viene da un contatto ravvicinato con la morte e ancora deve riuscire a vivere veramente, frequenta solo fantasmi e funerali; lei, Annabel la vita la sta per lasciare per colpa di un male incurabile che le lascia solo i giorni contati. La patata in mano a Van Sant era particolarmente bollente: il più famoso film su questo argomento “Love story” quando uscì (e forse ancora oggi) spaccò a metà critica e pubblico. C’erano quelli che uscivano dalla sala commossi e con gli occhi gonfi e quelli che rifiutavano sdegnosamente il “ricatto emotivo” di una simile storia. In “Restless” (titolo italiano da dimenticare, tanto per cambiare ... “L’amore che resta”) invece molte situazioni apparentemente drammatiche in mano al regista di Louisville acquisiscono una dimensione scherzosa, irriverente verso il destino, una totale libertà intellettuale rispetto ai luoghi comuni sull’argomento. Come è d’altronde vero che il peso del dramma lo sosteniamo tutto fin dall’inizio, viviamo perfettamente le vite interrotte dei due ragazzi senza che Van Sant debba usare nessun trucco psicologico. Un po come succedeva nei film della nouvelle vague caratterizzati si da un certo anarchismo intellettuale ma anche da un profondo romanticismo: il dramma è li, dietro l’angolo ma noi voliamo alto insieme ai pensieri e ai gesti dei protagonisti per tutto il film. Nello specifico impossibile non ripensare a “Jules et Jim” di Truffaut (la passeggiata in bicicletta) o a “A’ bout de souffle” di Godard (i capelli corti, biondi di Annabel stile Jean Seberg con Belmondo pre-destinato a morte prematura)

"Restless" è segnato dalle situazioni banali, quelle piccole cose che accadono giorno per giorno e che li per li non sappiamo sottolineare, alle quali non diamo alcun peso. Ma che poi escono fuori con il tempo, quando si ricordano persone care ormai lontane o legami affettivi ormai finiti nel passato. E’ il potere della memoria. Ebbene GVS riesce a dare corpo unico a un insieme di piccole scene romantiche, divertenti, tristi, naturali e a fare di queste il fulcro del film. Il lavoro “fotografico” sui due ragazzi ricorda moltissimo gli altri film di GVS che non ha caso secondo me e non da questo film sa raccontare meglio di chiunque altro le nuovissime generazioni americane, le loro vite apparentemente distaccate dalla realtà ma che hanno un mare in tempesta nelle viscere. Basti pensare a “Elephant” o a “My own private Idaho” oppure “Paranoid Park” o “Will Hunting”. Il regista americano affonda si lo sguardo ma non si sofferma più di tanto sulle loro espressioni, li riprende di lato per non invaderli in pieno, lo fa in modo quasi quasi casuale, sulle loro guance segnate da couperose o sulla loro fronte ricca di acne giovanile. Per questo non ha bisogno di mostrarli alle prese con i consueti “totem” generazionali quali iPhone, computer, cellulari, videogames. Non ce n’è bisogno. GVS li racconta intimamente ma senza mai scalfirli o violentarli: è veramente di una classe superiore.

Questo modo così lieve di raccontare una storia destinata a finire, mi ha rimandato con la mente ai film di Michel Gondry e in particolare a “The eternal sunshine of the spotless mind” anche se lì i protagonisti erano giovani già cresciuti e c’era una “morte” solo virtuale. Sarà forse per quella scena che poi è diventata la locandina di entrambi i film: i due ragazzi stesi in mezzo alla strada presi dall’alto con le sagome auto-segnate in gesso per “Restless” e la scena simile nel film di Gondry con Jim Carrey e Kate Winslet distesi per terra ripresi con il dolly che li riprende in un deserto di ghiaccio. Poesia del racconto cinematografico.

I due ragazzi giovanissimi Annabel ed Enoch sono interpretati senza enfasi dai giovani Mia Wasikowska e dal figlio di Dennis Hopper, Henry alla sua prima prova. Non sapendo nulla del cast di questo film, alla prima scena con Enoch ho avuto un sussulto sulla sedia riconoscendo in lui il giovane bulletto di “Gioventù bruciata” e mi sono detto fra me e me “ma guarda che sfrontato questo ragazzino che fa il verso al grande Dennis e a James Dean” poi ai titoli di coda ho capito...

Chiudo con un cenno di merito alla sala 3 del Fiamma, dove ho assistito alla proiezione di "Restless". La scelta sulla carta era poco incoraggiante, delle tre sale romane nelle quali è stato programmato il film (scandaloso che un titolo del genere non sia stato distribuito ne in versione originale ne in una sala grande) ho scartato a priori la sala 3 del Doria, e la sala 3 del Greenwich per manifesta incompatibilità con un cinema degno di tale nome. Non avendo alternative ho avuto dal carissimo amico cinéphile Lorenzo Bottini il benestare per la 3 del Fiamma dove non ero mai stato: beh non ci crederete... ma molto meglio di una sfilza di sale uno e due sparse per Roma. Schermo e audio come dio comanda, poltrone comodissime e ben distanziate, solo un leggero rumore del proiettore che naturalmente essendo a ridosso dell’ultima fila si fa sentire.

Quindi buone vibrazioni... grazie al Fiamma e grazie soprattutto a Gus Van Sant.

 

Marco Castrichella (22/10/2011)

 

 
THIS MUST BE THE PLACE di Paolo Sorrentino

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E’ arrivato in sala a Roma e in tutta Italia dopo un giro strano, quasi uno scherzo del destino il nuovo film di Paolo Sorrentino. Per la
prima volta il regista napoletano gira fuori dall’Italia ma non solo... si passa da Dublino a New York e poi tutto un viaggio nella pancia
americana dal New Mexico, allo Utah  senza nemmeno un attore italiano anzi con delle vere e proprie icone del cinema a stelle e strisce quali Sean Penn, Frances McDormand e Harry Dean Stanton. Il film è stato presentato e apprezzato a Cannes ormai 5 mesi fa e noi poveri connazionali lo avevamo quasi dimenticato... l’Italia non c’è in questo film, l’Italia, anzi la Napoli di Paolo Sorrentino, viene nominata in una delle straordinarie battute del protagonista proprio all’inizio del film, poi basta. E allora? Cosa è successo al bravo regista campano? Ha mollato tutto e voltato pagina? Nemmeno per sogno: questo film è tutto del Sorrentino che conosciamo. Riconosciamo in questo tutti i suoi film e personaggi precedenti con le loro vite sospese, il loro apparire grotteschi ma animati tutti da grande sensibilità “deep inside”, una giostra di personaggi che tanto ricorda la felliniana passerella in otto e mezzo. E non a caso se di Fellini avevo già parlato in occasione della surreale biografia andreottiana in quel meraviglioso film che è stato “Il divo” anche in TMBTP alcune “messe in scena” e il sarcasmo di fondo dei personaggi del film non possono non rimandarci alla macchina dei sogni inventata dal maestro di Rimini. L’inizio folgorante in una Dublino non riconoscibile, in una casa ultra confortevole ma dove il protagonista abita annoiato senza sapere nemmeno perché la piscina sia senz’acqua o perché in cucina l’architetto abbia montato la scritta “Cuisine”. Scenografie dilatate, lenti movimenti di macchina con la steadycam sottolineati dalle emozionanti musiche di David Byrne, personaggi immobili su sfondi metafisici in un gioco di geometrie alla De Chirico. Eccolo, lo percepiamo, lo assaggiamo quasi il “nostro” Paolo Sorrentino Style, diventa parte di noi e ci lasciamo cullare in questo viaggio di suggestioni dove a ritmata cadenza arrivano le battute solitarie, una sceneggiatura fatta di frasi, mai banali, sempre caustiche, divertenti e corrosive alle quali lo stesso protagonista sorride dopo averle pronunciate. Ma è nella storia che Sorrentino compie il salto: il protagonista del film dicevo e assoluto catalizzatore di ogni scena è Cheyenne, ex stella della musica che tanto, ma veramente tanto ricorda Robert Smith leader dei Cure. Cheyenne è interpretato da uno strepitoso, irriconoscibile Sean Penn. Cheyenne è ora un cinquantenne annoiato (non depresso come dice la moglie) che non ha nemmeno un passato di cui andare orgoglioso. Però Cheyenne non è cresciuto ne dentro ne fuori e quindi lo vediamo girare per Dublino vestito e truccato come lo era venti anni prima. Come una molla scattò per il Titta/Servillo ne “Le conseguenze dell’amore” così per Cheyenne/Penn arriva un input. Non dall’amore stavolta perché Cheyenne come dicevo è rimasto ragazzo... ma dalla sua famiglia ebraica a New York che lo spingerà a muoversi, a mettersi in discussione in parole povere lo butterà on the road. E qui mi fermo con la trama: perché la “storia” del film è molto bella e Sorrentino, che secondo me aveva fallito il finale di un paio di film, qui compie il vero salto di qualità e di maturità.
Tornando velocemente a Sean Penn ieri sera ho capito finalmente a cosa si riferisse quando a Cannes dichiarò di essere eternamente grato a Paolo Sorrentino perché nessuno lo aveva mai fatto recitare in questo modo: beh direi che per un attore così importante, un personaggio pubblico fra l’altro così celebre e riconoscibile mettere nella propria ricca filmografia una interpretazione di questo calibro è sicuramente motivo di grande orgoglio e prestigio comunque la pensino i critici americani oggi.
C’è anche un altro elemento fondamentale nel film e finalmente se ne accorgeranno tutti quelli che normalmente ignorano quanto siano collegati, addirittura legati in modo indissolubile Cinema e Musica: la collaborazione con David Byrne ha dato a TMBTP un marchio di fabbrica e di unicità che renderanno questo film un cult assoluto senza tempo.
E chiuderei il commento al film proprio con David Byrne e la sua apparizione in quella che è la più bella sequenza del film: il concerto live dove il musicista scozzese esegue la canzone che da il titolo al film. Parte la musica e la mia poltrona, insieme a quelle di una buona metà della sala, comincia a ondeggiare. La mdp non mostra il gruppo ma un “quadro” dai colori caldi ma freddissimo dell’interno di un salotto con donna sola che sfoglia riviste prima prende vita e poi sale, si capovolge e quindi ritroviamo “proiettato” sulle teste dei musicisti. E poi la macchina ancora giù fra il pubblico fino a “trovare” Cheyenne, piangente, commosso che a quel punto si ritroverà solo con l’arte di David Byrne e con lui avrà uno sfogo amaro, toccante, autentico che muove anche tutte le nostre corde. Bellissimo.

Marco Castrichella (15/10/2011)

 
TOMBOY di Céline Sciamma

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Ieri sera al Nuovo Sacher ho visto questo piccolo, breve, delicatissimo film francese presentato con successo a Berlino e in diversi festival minori. Fortunatamente e inconsapevolmente è stato proiettato dai bravi esercenti morettiani in versione originale e dico fortunatamente perché se il doppiaggio è sempre da evitare lo è ancora di più quando si tratta di film con bambini protagonisti, le loro espressioni molto naturali non possono subire un doppiaggio in studio da parte di altri bambini. E’ assurda la sola idea.

Tomboy è il protagonista e ha 10 anni. Tomboy è un nomignolo. Il nome vero è Laure o Mikael. Tomboy è un termine pressappoco simile a quello che a Roma si usa per “maschiaccio” rivolto alle ragazzine con atteggiamenti maschili nel vestirsi, nella scelta dei giochi, nel parlare. Tomboy sta scegliendo la propria attitudine sessuale e nemmeno lo sa, forse. Tomboy lo capisci subito dal titolo che la regista decide di offrirci su sfondo nero prima con la scritta azzurra, poi rosa e poi finalmente alternata azzurra e rosa. Colorata non monocromatica come è giusto che sia la natura dei bambini.

Il periodo di svolgimento dell’azione è molto breve, dura meno di un’estate quella in cui i genitori che attendono un nuovo bambino, la sorellina Lisa e Tomboy si trasferiscono in nuovo appartamento. Anche in questo è bravissima Céline Sciamma: a non prolungare troppo la fase di “osservazione” nella vita di Tomboy. E’ un breve periodo, cruciale della vita del protagonista che ci permette di seguirne con la mdp attaccata al corpo movenze, reazioni, giochi, pensieri, senza troppe filosofie. Solo il quotidiano. C’è un’altra grandissima protagonista nella storia di Tomboy e badate bene non è Jeanne la ragazzina grande che inevitabilmente si “innamora” di questo nuovo arrivato, ma la sorellina Lisa. Straordinaria sia per come “recita” ma anche fondamentale nel ruolo. Lisa è l’unica che non si chiede perché Laure abbia deciso di “essere” Mikael. Lo accetta perché le vuole bene, si fida di lei e non ha la malizia e soprattutto il preconcetto dei grandi. E fra i grandi oltre a mamma e papà (più tenero e gentile sicuramente rispetto alla reazione materna in quanto “maschio” e potenzialmente più vicino al sesso che sta scegliendo la figlia) purtroppo ci sono già anche i coetanei di Tomboy... è con loro il vero confronto.

Naturalmente non dico nulla di più ma il finale scelto dalla giovane Sciamma è assolutamente da condividere, senza scene madri o forti, vero e bello come tutto il film. Direi che ricorda molto il finale dell’ultimo film dei fratelli Dardenne “Le gamin au vélo”.

E non è poco... tutt’altro.

 

Marco Castrichella (12/10/2011)

 
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