Dal 1983 a ROMA in Via di Monserrato 107 - Tel 066869197 - 0668974451
Hollywood tutto sul cinema
Home Recensioni

Accesso clienti

ISCRIVITI PER RICEVERE GLI AGGIORNAMENTI NOLEGGIO E LE NOVITA' E PROMOZIONI DEL NOSTRO NEGOZIO

Fotolia_14848176_XS

Schermata_11-2455885_alle_06.43.31


Recensioni -Video -Trailer
BIUTIFUL di Alejandro Gonzales Iñarritu - Un film che farà discutere
biutiful_javier_bardem_alejandro_gonz_lez_i_rritu_085_jpg_qsha

 

BIUTIFUL di Alejandro Gonzales Iñarritu

Appena arrivato nelle sale italiane il nuovo, attesissimo film del messicano Iñarritu che terminata la “trilogia del dolore” si ripropone con un film che più doloroso non si può. E allora perché? Perché rimane si la tragedia, si il dramma ma scompare del tutto il destino che accomunava le vite dei “poveri cristi” nei tre precedenti film: qui il povero cristo è uno solo Uxbal, il protagonista interpretato da un magnifico Javier Bardem. E il destino non c’entra più... è la contraddizione degli sconfitti la protagonista del film, il nostro povero cristo sfrutta i clandestini per dar loro una possibilità di vita e si accorge del “difetto” solo quando è troppo tardi.

Lui è la prima vittima perché legato ancora sentimentalmente alla donna più fragile del mondo, perché deve dare tranquillità e crescere i due figli in una casa che è una schifezza, in una Barcellona irriconoscibile, quella della periferia, dei cinesi e degli africani clandestini altro che Woody Allen e le sue Vicky e Cristina dei fiori alle finestre, dei flamengo e del vino tinto... si vero c’era anche li un certo Bardem che però era un figaccio incredibile, questo Bardem è un pover’uomo che sta per morire, che non ha mai visto vivo il proprio padre, lo vedrà (e come) in due scene indimenticabili: all’inizio del film (che poi è la fine) e insieme al fratello durante la riesumazione per la cremazione.

Il talento del regista messicano appare sfolgorante in alcune scene (la retata della polizia ai danni dei venditori abusivi sulla Rambla è impressionante).

Il film farà discutere, ha un limite forte di sceneggiatura (non è più Guillermo Arriaga a scrivere) ma ha un pregio secondo me non da poco: non commuove come qualsiasi altro film del genere, ma indurisce lo spettatore, gli da la giusta tensione o al limite la cattiveria per dire “devo resistere!” dobbiamo comunque resistere per essere ricordati dai nostri figli anche se non abbiamo combinato niente di buono. Diventa una questione di orgoglio, non di pietà o di dolore.

Il Boss

Marco Castrichella

 

biutiful_javier_bardem_alejandro_gonz_lez_i_rritu_050_jpg_ubce---biutiful_javier_bardem_alejandro_gonz_lez_i_rritu_043_jpg_bcwj

 

 




 
INCENDIES di Denis Villeneuve: Una donna libanese, cristiana che porterà per mano lo spettatore a conoscere circa 15 anni di una guerra devastante.
incendies 

INCENDIES di Denis Villeneuve

 

Nelle sale italiane lo troverete come “La donna che canta” pessima scelta di cambio-titolo che come al solito caratterizza le distribuzioni italiane: da noi è stato usato il nome di uno dei “sipari” che frammentano e caratterizzano l’origine del film canadese (è tratto dal testo teatrale “Incendies” di Wadji Mouawad).

Nella mia ancestrale sala Alcazar di Trastevere c’è un discreto pubblico nonostante il film sia già in proiezione in più sale dalla settimana scorsa. Staian non è venuto, Angus aveva la prove, Barbara tornava “stanca” da un venerdì nonnistico-prenestino... quindi solo soletto mi appresto alla visione con il timore di ri-vedere un film stucchevole sulla falsa riga dell’argentino “Il segreto dei suoi occhi”. E direi che la struttura del film potrebbe anche ricordarlo visto che si procede con una narrazione a scatole cinesi, ma l’impatto drammaturgico del film, il contesto della guerra in Libano e soprattutto la padronanza del girato (fotografia-montaggio-musica-interpretazione) insomma la Regìa nel senso più alto del termine, mi hanno da subito inchiodato alla poltrona. Secondo me la vera abilità dell’autore nel dirigere un film di questo genere è nel saper tenere le briglie strette durante le inevitabili scene di violenza e a quelle dalla lacrima facile. Una delle scene iniziali sottolineata dalla magica “You and whose army?” dei Radiohead che sembrerebbe scritta per questo film, ha un potere evocativo che difficilmente riusciamo a cogliere nei film di questi ultimi anni.

La trama è di tale importanza che non la accenno minimamente per non rovinare nemmeno una sensazione dello struggente viaggio nel passato della protagonista (interpretata dalla bravissima Lubna Azabal che mi ha rievocato la Bonaiuto dell’Amore molesto) una donna libanese, cristiana che porterà per mano lo spettatore a conoscere circa 15 anni di una guerra devastante.

Fine del film: nonostante appena inizino i titoli di coda vengano subito accese le luci in maniera selvaggia, il pubblico rimane seduto in silenzioso ascolto della colonna sonora e segue la lettura di nomi sconosciuti. Che bello.

 

Marco Castrichella

 

 

 
In un mondo migliore di Susanne Bier : In due minuti si passa dalla quasi certa morte di Elias alla resurrezione.

In_un_mondo_migliore_02-18336677

In un mondo migliore di Susanne Bier

 

Visto, in ritardo con Angus e Staian al Nuovo Sacher monteverdino (sempre grazie di esistere: casa Moretti è una delle migliori sale romane) il nuovo film della regista danese presentato al Festival di Roma, dove fra l’altro fino all’ultimo era stato considerato come maggior indiziato per la vittoria.

Il film è da subito riconoscibile e riconducibile alle precedenti opere di Susanne Bier: persone occidentali coinvolte in qualche maniera con il Terzo Mondo, con delle situazioni familiari e sentimentali in bilico nella apparente oasi di tranquillità nelle confortevoli eleganti abitazioni nordeuropee.

Stavolta parlerò della trama, primo perché il film non ha nulla di misterioso che lo spettatore non si possa aspettare, secondo perché è un racconto ridicolo.

Devo dire che la prima parte del film, quella di presentazione e descrizione del soggetto più che dei protagonisti è sufficientemente interessante: si parla della violenza o meglio della sopraffazione violenta e di come reagire a questa. I protagonisti passivi (sembrano sconfitti fin dalle prime scene) sono i grandi, gli adulti, protagonisti attivi due ragazzini che delusi dalle situazioni familiari (?!) montano una sorta di escalation di voglia di affermazione violenta che esploderà sicuramente, ne siamo certi.

E qui il film crolla: è tutto banalizzato, stereotipato con il ragazzino forte che insegna Elias suo nuovo amico-vittima la necessità di farsi rispettare, e lo fa con uno sguardo e un atteggiamento di stampo nazi-fascista. Il piccolo Christian arriva anche a picchiare e insultare il padre colpevole di avere tifato la morte della mamma solo per non vederla più soffrire da malata terminale, colpevole di aver parlato con la madre di Elias (immaginatevi cosa avrebbe fatto se il papà avesse avuto anche solo l’idea di rifarsi una compagna...)

Elias dalla sua parte ha due bravissimi genitori medici-impegnati-progressisti-non violenti che però attraversano un periodo di crisi coniugale e allora il ragazzo secondo il teorema-Bier può diventare subito appetibile per le strategie della violenza con le quali si diletta il micidiale amico.

Vabbè come se non bastasse appare una torre/silos dove i sue ragazzini si rifugiano e appena il papà premuroso di Elias fa notare che quel posto è pericoloso, parte uno sguardo fra me, Staian e Angus come a dirci: “Sta torre sarà decisiva!”

Il piccolo micidiale Christian prosegue il suo corso del piccolo terrorista home-made preparando bombe con fuochi d’artificio (!?!) ma Elias non ha il suo fegato e alla fine un cromosomo non-violento del padre (che nel frattempo in Africa aveva ceduto per 5 minuti alla tentazione...) lo frega e rimane mezzo stecchito nell’opera finale. In due minuti si passa dalla quasi certa morte di Elias (tanto è vero che Christian va a compiere il suo “dovere” di espiazione verso il silos) alla resurrezione: il referto della tac indica solo qualche piccola contusione. Naturalmente il papà di Elias, sempre dietro nostro suggerimento, viene invitato a vestirsi, sbrigarsi per accendere l’auto e recarsi a salvare Christian in bilico con il vento in faccia sull’orlo del silos.

Ce la farà! lo porterà all’ospedale dal figlio risorto e magicamente i due parleranno del giorno dopo a scuola senza neanche un mese di riformatorio per i due psicolabili piccoli criminali.

Stendiamo un velo sull’apparizione sporadica della polizia locale in tutto questo (il quiz incrociato del pestaggio iniziale ha del comico) sulle solitudini in riva ai pacifici laghi nordici.

Conclusione: la Famiglia è un istituzione nociva per molti versi ma soprattutto per certi registi.

Ripetere, mischiando le carte, i meccanismi del successo di film come “Dopo il matrimonio” o “Non desiderare la donna d’altri” non sempre riesce. Il grande maestro nato da quelle parti, Ingmar Bergman dopo una serie interminabile di capolavori sulla famiglia, sull’educazione, sulle istituzioni solo nel suo ultimo film elevò a protagonisti due ragazzini: si chiamavano Fanny e Alexander.

 

Marco Castrichella

 
Kill Me Please “Clinica del suicidio” A scanso di equivoci, si ride.
killme-please-locandina

Kill me, please!

Presentata e premiata all’ultimo Festival del Cinema romano questa scorrettissima commedia nera (anzi bianco/nera e non solo per la scelta della fotografia) si rivela come una delle pochissime voci fuori dal coro nel panorama cinematografico piuttosto appiattito dell’anno passato.

Il film è diretto dal francese Olias Barco anche se poi la produzione è belga e l’unico ambiente narrativo è un castello in Svizzera (dove sembra esistere l’unico esempio di “Clinica del suicidio”)

A scanso di equivoci, si ride. Si ride sul tema del suicidio e della morte ma stiano lontani gli appassionati della commedia tradizionale: la struttura narrativa e i personaggi così seri, austeri, che sembrano partoriti dalla mente di Kaurismaki, sono si grotteschi ma mai ridicoli, non dicono battute ma dialogano, narrano le proprie storie e i propri disagi che li hanno portati al ricovero nel castello. E infatti alcune scene sono assolutamente tragiche, come avrebbero potuto pensarle un Luis Bunuel o un Marco Ferreri, autori che non a caso hanno vissuto molto in Francia e che secondo me sono nel dna dell’autore.

Dicevo iniziando il commento che il film è un vero bianco/nero perché il soggetto è il suicidio. E cosa c’è di più nero del suicidio e di più bianco della “morte dolce”. Il nero se lo portano appresso i “fortunati” ricoverati in attesa della morte con le loro storie più o meno sfigate, il bianco è la neve presente dalla prima all’ultima scena e se qualcuno ricorda “Fargo” dei Coen Bros. o Lady Vendetta di Park Chan-Wook capirà a cosa mi riferisco

Naturalmente c’è un colpo di scena a metà del film che rovescia e stravolge ogni logica sulla pianificazione della morte. Non ne risente comunque l’identità dell’opera, o meglio per qualcuno si, visto che da qui alcuni spettatori hanno lasciato la sala (la comodissima Alcazar trasteverina) scatenando ancora di più il senso grottesco della pellicola. Io e il mio figliolo Angus a quel punto fomentati dal doppio senso surreale (del film e delle reazioni in sala) ci siamo esaltati. Lui addirittura ha drugheggiato e alla fine a luci accese sui titoli di coda ha invitato gli “scontenti” spettatori ad andare a vedere Clint Eastwood: “Ve lo meritate Hereafter!!”

 

15/01/11 Marco Castrichella

 
“Hereafter” A volte ci accade, ci capita fra capo e collo

matt_damon_clint_eastwood

www.hollywood-video.it           



Visto ieri sera nella versione originale (tanto per essere assillante: ne vale sempre e assolutamente la pena per non perdere neanche una voce, una frase o un rumore del film) con poche persone in sala e quindi in assoluta tranquillità. La nuova opera del vecchio Eastwood segue il percorso degli ultimi film a parte il “politico” mal riuscito “Invictus”. Si racconta la Solitudine più che l’Aldilà evocato dal titolo. La solitudine che non è quella scelta dal burbero protagonista di “Gran Torino”, ma quella che delle volte ci accade, ci capita fra capo e collo. E qui la devono superare tre persone lontanissime geograficamente ma anche per cultura e ruolo nella società. Il film a parte la presentazione delle tre storie che hanno sicuramente un impatto energico o addirittura violento,scorre poi sui binari del romanticismo neanche troppo sdolcinato ma comunque assai scontato. Il sorriso scompare dai volti delle tre persone fino ad arrivare a un magico punto d’incontro. C’è molto dolore nel film anche se poi diventa prioritaria la voglia non tanto di superarlo quanto di accettarlo e capire che anche l’aldilà si gestisce sempre da questa parte, dalla parte di chi resta a soffrire. Musica, fotografia e script fanno il loro sufficiente lavoro, ma capolavoro come avevo sentito in giro, no.Personalmente il lato più piacevole è questo nuovo corso ideologico dell’ormai sepolto sindaco conservatore di Carmel. In un mondo che sembra andare sempre più verso l’intolleranza religiosa, la chiusura culturale e il destrismo più osceno vedere il mitico Clint appiccicare nell’armadietto degli operai a rischio licenziamento una minuscola, quasi inavvertibile immagine del Che mi da un po’ di ottimismo e tanto coraggio.

Marco Castrichella

 

 
<< Inizio < Prec. 1 2 3 4 5 6 7 8 Succ. > Fine >>

JPAGE_CURRENT_OF_TOTAL

Copyright © 2011-2017 - Hollywood di Marco Castrichella Partita Iva 00709960553
Tutti i diritti riservati - I marchi, loghi ed immagini sono dei rispettivi proprietari. - PRIVACY POLICY

Supporto tecnico Solucom Ltd