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HABEMUS PAPAM di Nanni Moretti E’ lui è tornato Nanni, lo riconosco!

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Eccolo finalmente!

Atteso come sempre più di sempre il nuovo parto cinematografico del regista romano più amato e più odiato d’Italia.

Il regista che nei suoi film ha parlato del partito comunista, di crisi ideologiche, di indiani cicorioni, di corrotti, di caimani e di elezioni.

Film che mediaticamente sono sempre stati accolti, visti e criticati come trattati politici anziché come opere cinematografiche, comunque mai passati inosservati.

E naturalmente questo sul Papa era atteso a prescindere come liberatorio dagli amici di sinistra-progressisti e come oltraggioso dai nemici cattolici-conservatori.

Ebbene il film che personalmente ho visto ieri sera nulla ha a che vedere con tutto questo...

Molto condizionato dalle voci, lo ammetto, e dal fatto di non essere cattolico praticante sono andato a vederlo a casa sua, nel suo “utero materno” di Trastevere al Nuovo Sacher: folla all’uscita e in entrata, in fila ordinatissimi, contenti di essere accolti come da un amico che fa vedere il suo bimbo agli amici e ai parenti. Sebbene abbia chiuso bottega in anticipo e sia arrivato con lo scooter ben venti minuti prima dell’inizio mi tocca andare di sopra in galleria. Poco male sono contento lo stesso.

L’inizio è incredibile: c’è Piazza San Pietro, i fedeli, alcune immagini dei funerali di Wojtyla.

Però è solo un abbaglio, quando arriva il cronista televisivo che racconta l’inizio del conclave con i cardinali che fanno il loro ingresso nella basilica riconosco il Nanni’s touch: (non lo è) ma è lo stesso cronista che su “Ecce bombo” vedeva un tavolo di “giovani” e li andava a intervistare.

Vede una fumata bianca, ma la vede solo lui e allora sbircia sui monitor, ascolta gli altri cronisti per correggersi e affermare che la fumata è nera, come gli scolari quando sbagliano la data di una guerra durante l’interrogazione.

E così anche i cardinali che pregano Dio per non essere scelti mi sembrano come gli scolari che pregano per non essere chiamati dal professore.

E’ lui è tornato Nanni, lo riconosco! Sono bastati meno di 10 minuti per ritrovarlo: è il Nanni che come nessun’altro ha saputo raccontare le nostre angosce e i nostri ricordi d’infanzia.

“Habemus Papam” non è un film sul Papa nemmeno sul Vaticano e il suo Potere ne tantomeno sulla Religione.

E’ un film che racconta l’inadeguatezza degli adulti di fronte al dovere di essere maturi, di comandare, di condurre il gioco.

Racconta il rimpianto delle nostre speranze di bambini, della semplicità e della gioia di mangiare una bomba con la crema o di una partita di pallavolo dove puoi esultare o arrabbiarti come un bambino, l’eterno bambino che freudianamente tutti noi vorremmo rimanere.

Mi passano davanti tutti i suoi film da “Io sono un autarchico” a “La messa è finita” da “Bianca” a “Palombella rossa” ecco soprattutto il mio amato “Palombella rossa” dove il giocatore-politico smemorato in crisi d’identità non vuole giocare ma deve farlo, provando magari a vincere ma con un colpo ad effetto, una palombella e che durante la partita rivede la sua infanzia, i ricordi dei particolari, il non volere andare in piscina, la sicurezza che può dargli solo la mano della mamma.

L’ascolto in quel film di “I’m on fire” di Springsteen che coinvolge tutti i personaggi e ci stringe il cuore in gola è lo stesso ascolto in “Habemus Papam” di “Todo cambia” della cantante argentina Mercedes Sosa che libera tutti: dal finto-Papa chiuso nelle stanze del Vaticano da dove parte la musica ai cardinali fino al vero-Papa che ascolta la stessa canzone da alcuni giovani musicisti di strada.

E allora la nostalgia dell’infanzia prende tutti: dal Papa (uno straordinario e commovente Michel Piccoli) che appena eletto fugge dal suo ruolo e dal Vaticano per riscoprire la sua passione per il Teatro fino ai cardinali che da dinosauri statici diventano finalmente fanciulli grazie allo psicanalista/Moretti.

E naturalmente noi spettatori che con risate liberatorie assistiamo a questa surreale ma dolcissima rappresentazione del Potere Temporale e con emozione seguiamo il percorso di liberazione di questo uomo che non vuole decidere ma essere guidato.

Direi per concludere che possiamo ringraziare Nanni perché sa leggere e raccontare come nessun altro il nostro comune senso della “mancanza d’accudimento”, perché tutti noi nei nostri ricordi abbiamo comunque una nostalgia per il gioco e l’innocenza che non ci dovrebbero mai togliere.

E magari dopo aver visto questo film chissà che qualche personaggio “designato” a manovrare non riscopra il francescano senso del gioco e del divertimento.

 

Marco Castrichella

 

 

 

 

 
BEYOND di Pernilla August

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Lei, la regista, era un’allieva del grande Ingmar Bergman e molti la ricorderanno come attrice nel suo ultimo capolavoro per le sale “Fanny e Alexander” nel ruolo della domestica claudicante “braccata” dal vecchio padrone di casa.

Poi ha sposato Bille August anche lui grande regista che mise in scena fra l’altro la storia dei genitori di Bergman “Con le migliori intenzioni”.

Insomma questa opera prima non poteva essere un film qualunque, che potesse passare inosservato e soprattutto nessuno si poteva aspettare una commediola o un thriller.

E infatti l’altra sera ho assistito a uno dei migliori film drammatici degli ultimi anni sulla famiglia e sui suoi pericolosi legami.

Il film “Beyond” della svedese Pernilla August co-produzione svedese-finlandese spazza via il ricordo dello scontato e retorico analogo film della danese Susanne Bier “In un mondo migliore”.

Tutto qui è lasciato alla suggestione dello spettatore che può vivere la storia della protagonista Leena con i propri occhi, i propri nervi e la propria pancia.

I piani temporali della storia sono due: la Leena adulta con famiglia che “deve” correre suo malgrado al capezzale della mamma morente e la Leena bambina che appare in flashback durante il viaggio verso l’ospedale.

Leena ha passato l’inferno ma noi vi assistiamo e partecipiamo non nel modo esagerato, urlato e gonfiato dei classici drammi familiari; noi lo viviamo come Leena che gira dentro casa guardando tutto ma non reagendo, ascoltando tutto ma senza isterismi.

Anzi noi come lei proteggeremmo le orecchie del fratellino, cercheremmo l’amicizia della ragazzina accanto, andremmo in piscina per stare sott’acqua e non sentire più nulla.

Tenteremmo insomma con lei e come lei di superare l’infanzia: e Leena ci riesce.

Grazie anche al volto scavato di una impeccabile Naomi Rapace, con gli occhi profondi come la notte che ci colpiscono fin dalla locandina appesa all’ingresso della sala.

E’ l’espressione di chi è veramente così indurito da non commuoversi nemmeno di fronte alla persona alla quale ha voluto tanto bene ma che tanto male gli ha procurato.

Pochi registi e forse solo una donna cresciuta all’ombra del grande Bergman poteva raccontare il rapporto odio-amore fra donna e donna, fra figlia e madre.

Tutto il turbinio dei sentimenti contrastati viene fuori nel finale, partecipiamo e ci liberiamo, finalmente insieme a Leena.

 

Marco Castrichella

 
Tournée di Mathieu Amalric

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Dei film visti nelle ultime settimane, tutti belli e interessanti, quello al quale ho assistito ieri sera è senz’altro destinato ad essere il migliore.

Purtroppo conosciuto da noi solo come attore (e che attore!) arriva per la prima volta nelle sale italiane una pellicola diretta da Mathieu Amalric, il suo nuovo film grazie al quale si è aggiudicato la Palma d’oro per la regìa all’ultima rassegna di Cannes.

Un soggetto difficile anche solo da pensare, quello degli spettacoli del “burlesque”, raccontato come una sorta di road-movie.

Si racconta una tournée: gli alberghi, le cene, i viaggi, gli spettacoli di cinque signore americane, due ragazzi (uno è aiutante tuttofare e l’altro che accompagna e addirittura si esibisce) ma soprattutto del loro produttore.

Le donne esuberanti, mature, truccatissime, si spogliano (solo fino a un certo punto) danzano e cantano in giro per la costa francese con la speranza di arrivare anche a Parigi ma questo dipenderà soprattutto dal produttore che dovrà ricucire difficilissimi rapporti per avere la credibilità perduta prima di andare negli States.

Scomoderei nuovamente il mito Cassavetes se non lo avessi già fatto ultimamente per un altro paio di film, ma alcuni interni e i rapporti che si consumano in sguardi, scherzi, offese, schiaffi e baci che sembrano rubati da una cinepresa mai nascosta ma sempre appiccicata ai corpi dei protagonisti non possono non far pensare allo stile anticonvenzionale del grande John....

La vita forzatamente anarchica del nostro produttore Joachim/Amalric diventa la protagonista del film al pari degli spettacoli delle artiste americane.

Lui è un senza famiglia, senza amici, senza casa: un eroe perdente in tutti i sensi, per cui l’unica cosa che gli riesce è riempire i teatri delle città portuali francesi magari con la speranza di ri/aprire qualche rapporto importante.

Magari quello con i due figli: due ragazzini così “stronzetti” che quando il papà li rimette sul treno per Parigi in anticipo lo spettatore è quasi soddisfatto che finisca così male.

Non sempre possiamo pagare prezzi salati sulla nostra pelle e Amalric ha il coraggio di essere scorretto ma sincero, fino in fondo.

Tanto più che ci sarà sempre un nuovo albergo dove portare le sue signore, dove rubare caramelle, dove fumare pacchetti di sigarette qualunque, dove litigare con il portiere che non è autorizzato ad abbassare il volume di una stupida musica di sottofondo.

Joachim/Amalric soffre piange sta male non ha nessuno ma è diventato il nostro eroe.

Per una notte, per sempre. Chissà.

 

Marco Castrichella

 

 
“Sorelle Mai” di Marco Bellocchio

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Da Venezia arriva in sala un lavoro firmato da Marco Bellocchio che raccoglie quasi 10 anni di frammenti girati durante il laboratorio estivo Fare Cinema diretto dalla stesso autore nella sua cittadina d’origine, Bobbio, in Val Trebbia.

Definizione dell’opera impossibile visto quanto si intreccino al suo interno prove di scena, ruoli finti per personaggi veri, le sorelle del regista che fanno da zie al figlio vero e a un’attrice che dovrebbe essere la sorella. Scene da “I pugni in tasca” girato anche questo a Bobbio, primo folgorante esordio di Bellocchio che qui sembrano ricreare il senso documento-familiare del film.

Anche le immagine girate in digitale sembrano riportare ad un documento amatoriale. Gli anni che passano segnati dalla crescita della piccola protagonista del film, Elena, vero fulcro della storia che poi è la figlia vera del regista ma figlia nel film anche della sorella dell’altro figlio Piergiorgio.

Insomma il lato creativo di questo autore sembra non esaurirsi mai.

I suoi film sulla famiglia (condizione /condizionamenti) hanno fatto epoca, il periodo psico-analitico, un approdo al teatro cinematografico, alcuni documentari e interviste (ricordate quelle sul terrorismo?) la dimostrazione costante di essere in grado di “ricreare” il pathos cinematografico anche piazzando una videocamera in un salotto.

Per questo ancora oggi lo considero personalmente, forse insieme a Silvano Agosti, il solo regista italiano che ancora porta alto il verbo cinematografico di Godard e lo spirito della Nuova Onda.

Infine vorrei segnalare due momenti belli e profondi di “Sorelle Mai”: la visione in piazza dell’opera verdiana “Il Trovatore” con la vibrante “di quella pira” e il finale sul fiume con “Vecchio Frac”: Cinema allo stato incontaminato.

 

Marco Castrichella

 
Un gelido inverno di Debra Granik

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Ormai il certificato del Sundance Festival direi che funziona: se un film passa per quella rassegna già vale la pena vederlo, se poi prende qualche premio è da non perdere.

Addirittura questo “Winter’s bone” ha vinto a Torino e non è poco vista la credibilità artistica della rassegna piemontese.

Il timbro dell’opera non si presta certo al “capolavoro” ma vi garantisco che il film fin dalle prime scene tiene alta la testa (con due ragazzini impegnati in giochi poveri, nel posto più povero e dimenticato del Missouri) e non la abbassa più per buona parte dei cento minuti di proiezione.

Alza la testa perché ci si sente subito immersi in un film drammatico ma senza inutili scene a perdere: la ricerca del padre scomparso da parte di Ree, la protagonista appena diciassettenne è più per la sopravvivenza propria, del fratello e sorella più piccoli che per la mancanza della figura paterna. Non c’è psicologia o analisi familiare che tenga. Siamo davanti a una storia maledettamente dura dove la gente che circonda Ree non da nessuna fiducia.

Il motivo del film, senza volermi spingere oltre nella trama, è proprio il cammino di Ree verso il ritrovamento del padre, per dare un futuro a sé e ai piccoli.

I posti del film sono autentici a volte lirici a volte pesanti e truci ma anche qui nessuna forzatura, potremmo pensare ad Olmi o a Malick.

Ma c’è un altro film, ricordate “Frozen river” di Courtney Hunt?... un film poco celebrato, che a me personalmente mi ha dato le stesse sensazioni vuoi perché anche questo era ambientato in un freddo inverno vuoi perché anche qui si parlava di donne alle prese con grossi problemi economici, con famiglia a carico e con la colpevole assenza del “maschio” e poi questa America di provincia perdente, brutta sporca e cattiva come nemmeno Sergio Leone avrebbe potuto immaginare.

Una menzione personalissima, il piacere di aver rivisto seppure in una breve apparizione e piuttosto invecchiata la memorabile Sheryl Lee alias Laura Palmer... e qualcosa di lynchano nel film ci doveva pur essere!

Tanto freddo insomma ma anche tante buone idee per un film che non ti permette neanche di fare una battuta, o di tirare il fiato. Fortuna che uscendo dalla sala di Trastevere ci aspettava la prima sera di non-freddo... due passi a bere un buon bicchiere di nebbiolo da “Ombre rosse” per far decantare vino e film... e che la primavera ci porti altre pellicole come queste.

 

Marco Castrichella

 

 

 

 
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